
La tensione attorno alla prossima edizione dell’Eurovision continua a salire, alimentata dalla protesta di numerosi Paesi che contestano la decisione dell’Ebu di non escludere Israele dalla competizione. Una posizione che, nelle ultime settimane, ha assunto un carattere sempre più politico, con governi e artisti chiamati a prendere posizione di fronte a un’opinione pubblica polarizzata. Secondo molti osservatori, le scelte di alcuni Stati che hanno annunciato il boicottaggio della kermesse sembrerebbero rispondere più a logiche interne – in particolare ai rapporti con i movimenti pro-Palestina – che a una strategia condivisa sulla scena internazionale.
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Tra i Paesi che hanno deciso di restare in gara figurano Italia e Germania, così come la maggior parte delle nazioni coinvolte. È in questo contesto che si inserisce l’intervento di Nemo, vincitore dell’edizione 2024 e tra le figure simboliche dell’ultimo Eurovision. Lo svizzero, tramite un lungo messaggio sui social, ha annunciato di voler restituire il trofeo ricevuto, spiegando di non sentirsi più rappresentato da ciò che il concorso esprime oggi.

La presa di posizione di Nemo
Nel suo messaggio, Nemo ha ricordato quanto la vittoria del 2024 avesse rappresentato un momento di crescita personale e artistica, sottolineando la gratitudine verso la comunità dell’Eurovision. Tuttavia, ha dichiarato di non riconoscersi più in un trofeo che, a suo giudizio, non rispecchierebbe i valori di unità, inclusione e dignità promossi dal concorso. Alla base della sua protesta, ha indicato la scelta dell’Ebu di mantenere la partecipazione di Israele anche nel contesto del conflitto in corso a Gaza.
Nemo ha parlato di un “conflitto” tra i principi del festival e le decisioni dell’organizzazione, sostenendo che le azioni israeliane sarebbero state definite come “genocidio” da una commissione Onu. Una tesi che, però, non trova riscontro nei documenti ufficiali: la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha pubblicato rapporti in cui critica duramente sia Israele sia Hamas, utilizzando termini come “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”, ma non ha mai definito formalmente quanto accade a Gaza come un genocidio.
La definizione è stata avanzata da altri soggetti, tra cui il Sudafrica nell’ambito del procedimento presso la Corte Internazionale di Giustizia, ma non dalla commissione citata dall’artista. La sua affermazione, dunque, si basa su un fraintendimento, pur inserendosi in un clima di forte tensione che coinvolge pubblico, governi e istituzioni culturali.

Paesi che annunciano il boicottaggio
La protesta non si limita ai singoli artisti. Alcuni Stati hanno annunciato ufficialmente il proprio ritiro dall’edizione 2026, tra cui Spagna, Paesi Bassi, Irlanda, Islanda e Slovenia. Decisioni che rischiano di influenzare l’immagine internazionale della competizione e di mettere in discussione la capacità dell’Ebu di gestire un evento che si definisce neutr ale e inclusivo.
In un contesto così frammentato, il dibattito continua a intrecciare arte, geopolitica e comunicazione pubblica. Le prese di posizione di governi e artisti evidenziano quanto l’Eurovision, da semplice festival musicale, sia diventato un terreno simbolico nel quale si riflettono le divisioni e le pressioni del panorama internazionale.


