
Fu uno di quei momenti che restano scolpiti nella memoria collettiva, un lampo di follia controllata in un Festival abituato a rituali impeccabili. Ora che Beppe Vessicchio non c’è più, riaffiora anche quell’episodio del 2018 in cui il maestro, con la sua aria mite e la sua ironia disarmante, trasformò il palco dell’Ariston in un piccolo teatro dell’assurdo, affrontando Claudio Baglioni in un inatteso duello a colpi di bacchetta. Un gioco serissimo, come solo la musica sa fare quando si prende gioco di sé stessa. Eppure dentro quella finta scaramuccia c’era tutto: il rispetto reciproco, il peso dell’arte, la libertà creativa che non chiede permesso.
Il duello all’Ariston
Al Festival di Sanremo 2018, Baglioni era direttore artistico e regista musicale della kermesse, padrone della scena e custode della cosiddetta “linea sonora” del Festival. Vessicchio, invece, era il simbolo della tradizione orchestrale italiana: barba bianca, aplomb da gentiluomo, autorità naturale. Il terreno di scontro fu l’arrangiamento preparato per Mario Biondi, che il cantautore romano giudicò troppo lontano dal suo progetto estetico. La tensione — reale o costruita, ancora oggi resta un mistero — esplose in un gesto teatrale: Baglioni prese la bacchetta del maestro e la spezzò, mettendo in scena una sorta di rottura dell’armonia, un atto da commedia amara.
Vessicchio reagì come solo lui poteva: senza alzare la voce, senza trasformare lo scontro in ostilità. Lo guardò, lo stuzzicò, lo ribaltò. Fu lì che pronunciò il celebre “gnigni”, parola nonsense entrata nel lessico pop grazie ai The Jackal. Bastò quel suono surreale per trasformare il conflitto in sorriso, la rigidità in gioco. Il pubblico comprese all’istante: quello non era uno scontro di ego, ma una celebrazione della musica come linguaggio vivo, capace di mettere in discussione anche i suoi riti più solenni.
Il valore di una bacchetta spezzata
Risentita oggi, quella scena assume un sapore diverso. La bacchetta che si rompe, tra le mani del direttore d’orchestra più amato d’Italia, diventa un simbolo di ciò che Vessicchio ha rappresentato: la musica non come possesso, ma come dono; non come gerarchia, ma come dialogo. Quel gesto, che fece il giro del Paese tra risate e meme, oggi appare come una piccola parabola dell’arte: puoi controllarla, puoi provare a incorniciarla, ma finirà sempre per scapparti di mano, ridendo.
E Vessicchio, con il suo passo lento e lo sguardo ironico, era proprio questo: l’uomo capace di ricordare a tutti che la musica è una creatura libera. Che non si dirige, si accompagna. Che non si impone, si suggerisce. Che persino sul palco più istituzionale, tra luci perfette e scalette serrate, può irrompere un attimo di anarchia gentile, quel tipo di bellezza che non ha bisogno di urlare.
Oggi che lo salutiamo, resta l’immagine di quel sorriso e di quella bacchetta spezzata. E forse il modo migliore per ricordarlo è proprio il suo modo di stare al mondo: leggero, autoironico, profondamente serio nel mestiere e mai serioso nel gesto. La musica italiana perde un maestro, ma conserva il suo insegnamento più silenzioso: anche l’armonia può essere una risata.


