
Il maestro Peppe Vessicchio è morto oggi, sabato 8 novembre, al San Camillo di Roma, lasciando un vuoto profondo nel mondo della musica italiana e in quella liturgia popolare che per anni lo ha visto protagonista: il Festival di Sanremo. La sua figura è diventata nel tempo parte del rito stesso, un simbolo riconoscibile quanto il sipario dell’Ariston. Per questo, quando nel 2024 il suo nome non comparve tra i direttori d’orchestra del Festival, la notizia provocò sorpresa, nostalgia e una valanga di reazioni. Un’assenza che fece discutere, interpretata come scelta, come rottura, come gesto polemico. La verità, però, era molto più semplice e fu lo stesso Vessicchio a chiarirla.
Perché nel 2024 non c’era
Nel 2024 il maestro non prese parte alla kermesse perché non aveva collaborato con nessun artista in gara, e quindi non era stato chiamato a dirigere. Nessun retroscena, nessuna frattura con la direzione artistica, nessuna presa di posizione nascosta: solo la realtà tecnica di un festival che, al di là della sua aura spettacolare, resta un concorso strutturato con regole precise. Ogni direttore lavora in funzione del brano o del cantante che segue, e senza un progetto musicale affidato, la sua presenza non è prevista. Eppure, proprio l’abitudine di vederlo puntualmente sul podio trasformò un fatto normale in “caso nazionale”. Perché Vessicchio non era solo un professionista: era un elemento narrativo del Festival, un volto familiare, quasi un simbolo della tradizione contro l’imprevedibilità delle canzoni in gara. Il pubblico non si limitò a chiedersi “perché non c’è?”, ma quasi “come può Sanremo esistere senza di lui?”. Fu lì che il non esserci divenne notizia, e la normalità fu letta come eccezione.
Il rapporto con i fan e il ritorno sul palco
Sui social, però, la mancanza del maestro diventò rapidamente un caso. Il pubblico si era affezionato non solo alla sua musica, ma al suo modo di stare in scena: elegante, ironico, riconoscibile. Di fronte a quel tam tam digitale, Vessicchio rispose con leggerezza, definendo il tutto «un gioco affettuoso creato in rete e amplificato dai media». Alla fine, il suo nome comparve comunque sul palco dell’Ariston, perché accettò di dirigere i Jalisse, tornati dopo ventisette anni dal trionfo con Fiumi di parole. E fu allora che, con la sua consueta ironia, commentò anche la durata extralarge delle serate: «Il Festival è troppo lungo», disse scherzando, aggiungendo che solo “le punturine di Fiorello” riuscivano a tenerlo sveglio.
La morte di Peppe Vessicchio chiude una stagione della musica italiana e di Sanremo, ma non ne spegne la memoria. Rimane il gesto della bacchetta, l’immagine del direttore che entra in scena tra l’applauso del pubblico, il modo in cui il suo nome si è trasformato da semplice firma professionale a simbolo culturale. La verità sulla sua assenza del 2024 racconta chi era davvero: un musicista che non inseguiva il ruolo, ma il lavoro; un uomo che non ha mai usato la sua popolarità per fingere scandali, ma sempre per difendere il mestiere. Oggi si chiude un capitolo, ma la sua voce – quella silenziosa del gesto che dà il tempo – resta, come resta tutto ciò che diventa rito, affetto, memoria collettiva.


