
In ogni sistema giudiziario esiste una linea sottile che separa la punizione dal rispetto della dignità umana. È una linea fragile, continuamente ridisegnata dai casi di cronaca che interrogano la coscienza collettiva e mettono alla prova il senso stesso della giustizia. Quando una condanna dura anni, la società tende a dimenticare, ma per chi ha vissuto la tragedia o ne porta le conseguenze, il tempo non basta mai a chiudere le ferite.
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Ci sono sentenze che sembrano scolpite nella memoria pubblica e poi, improvvisamente, tornano a riemergere con una decisione giudiziaria capace di riaprire il dolore. Sono momenti in cui le regole del diritto si scontrano con il sentimento comune: la giustizia deve essere umana, ma può l’umanità non trasformarsi in indulgenza?
Il ritorno a casa del condannato
È in questo scenario che si inserisce la storia di Dimitri Fricano, condannato a 30 anni di carcere per aver ucciso la fidanzata Erika Preti nel 2017 con 57 coltellate. Dopo aver scontato sette anni di pena, l’uomo ha ottenuto nuovamente gli arresti domiciliari, lasciando il carcere di Torino per tornare a vivere nella casa dei genitori a Biella.
Il motivo alla base della decisione del Tribunale di sorveglianza è di natura sanitaria. Fricano, oggi trentottenne, soffre di obesità grave — pesa circa 200 chili — e presenta difficoltà motorie che, secondo i medici, rendono la detenzione incompatibile con la sua condizione fisica. Già oltre un anno fa gli erano stati concessi i domiciliari, ma con la possibilità di uscire tre ore al giorno per motivi di salute; ora, invece, le restrizioni sono più severe: può avere contatti soltanto con i genitori e non gli è consentito ricevere visite né comunicare con altre persone.

Le ragioni della legge
L’articolo 47-ter dell’Ordinamento penitenziario italiano consente ai giudici di concedere misure alternative alla detenzione quando le condizioni di salute del detenuto sono tali da rendere impossibile una permanenza in carcere senza rischi per la vita o senza cure adeguate. Serve però una perizia medica dettagliata che certifichi la gravità delle patologie e la mancanza di strutture penitenziarie idonee.
Nel caso di Fricano, l’obesità patologica e le conseguenti problematiche di mobilità hanno portato a un nuovo trasferimento domiciliare, motivato da “ragioni umanitarie e sanitarie”. Tuttavia, la misura è accompagnata da controlli stringenti e limitazioni rigide, che ne riducono sensibilmente la libertà.
Una città che non dimentica
La decisione ha riacceso il dibattito a Biella, dove il ricordo del femminicidio è ancora vivo. In passato, il padre di Erika Preti aveva raccontato di aver incrociato l’assassino della figlia per strada, un incontro casuale che aveva riaperto una ferita mai rimarginata. Ora la notizia del ritorno a casa dell’uomo ha suscitato nuovamente indignazione e dolore, non solo tra i familiari della vittima ma anche nella comunità locale.
Molti cittadini faticano a comprendere come un condannato per un omicidio così efferato possa lasciare il carcere dopo pochi anni. Tuttavia, le norme prevedono che anche chi ha commesso reati gravi mantenga il diritto alla salute e a cure adeguate.

Il difficile equilibrio tra diritto e sentimento
Il caso di Dimitri Fricano evidenzia la complessità del rapporto tra giustizia e compassione. Da un lato, la necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali; dall’altro, la percezione pubblica di una pena che perde il suo significato simbolico di giustizia per la vittima e per la società.
In ogni decisione di questo tipo si riflette una tensione costante: quella tra il dovere di applicare la legge e il bisogno di umanità che ogni ordinamento civile dovrebbe preservare. Ma quando l’umanità rischia di essere scambiata per clemenza, il confine tra giustizia e ingiustizia diventa sempre più sottile — e il dolore, per chi resta, torna a farsi sentire con la stessa forza del primo giorno.


