
La nostra vita ormai largamente digitale poggia su un’infrastruttura invisibile ma critica: enormi data center e servizi cloud che gestiscono comunicazioni, dati e servizi essenziali in tutto il mondo. Cosa accadrebbe se un attacco hacker coordinato colpisse simultaneamente questi pilastri? L’ipotesi di un blackout globale di Internet, per quanto estrema, preoccupa da tempo gli esperti di sicurezza. Già nel 2013 l’agenzia europea ENISA avvertiva che la diffusione del cloud è una lama a doppio taglio, chiedendosi “cosa succede se uno di questi grandi servizi cloud si guasta, o viene hackerato?”. Oggi, nell’era di dipendenza totale dal digitale, tale domanda assume un’urgenza inquietante.
La fragilità di un cloud concentrato
I grandi fornitori cloud (Amazon Web Services, Cloudfare, Microsoft Azure, Google Cloud) concentrano la maggior parte del traffico e dei dati online, offrendo efficienza ma creando un enorme punto di vulnerabilità Basti pensare che una singola regione di server in Virginia (AWS US-East-1) gestisce da sola circa il 70% del traffico internet mondiale, un vero collo di bottiglia paragonato allo stretto di Hormuz per il petrolio. Ciò significa che un incidente in quel punto nevralgico – sia esso un errore tecnico o un sabotaggio – può provocare disservizi a catena su scala globale. Non a caso, gli esperti sottolineano come queste infrastrutture siano vulnerabili non solo a guasti accidentali, ma anche ad attacchi informatici mirati, sabotaggi geopolitici o perfino ad azioni terroristiche. In pratica, il cloud sta diventando quella che alcuni chiamano “la rete elettrica del XXI secolo”, con economie e governi sempre più dipendenti da sistemi digitali spesso gestiti da entità private in altre nazioni. Questa dipendenza pone anche un problema di sovranità digitale: in Europa, ad esempio, servizi pubblici e settori strategici sono costruiti su un backbone tecnologico che il continente non possiede né controlla pienamente. Un evento catastrofico sul cloud avrebbe dunque implicazioni non solo tecnologiche, ma anche economiche e geopolitiche di vasta portata.
Uno scenario da incubo: la “tempesta perfetta” del cyber-spazio
Immaginare un collasso globale di Internet significa spesso pensare a uno scenario di tempesta perfetta, in cui più eventi disastrosi avvengono in rapida sequenza. Gli specialisti di infrastrutture internet riescono a delineare ipotesi plausibili su come potrebbe verificarsi il “Big One” digitale. In uno scenario ipotetico descritto di recente dal Guardian, una combinazione di fattori potrebbe mandare in tilt la rete mondiale:
- Disastri fisici: un tornado devasta un importante cluster di data center di Google negli Stati Uniti (ad esempio l’area us-central1 in Iowa), seguito da un’ondata di caldo estremo che mette fuori uso la regione AWS in Virginia – nota come Datacenter Alley, fulcro critico dell’infrastruttura cloud di Amazon. Queste calamità colpiscono due nodi nevralgici dell’internet, creando i primi blackout di servizi in molte aree.
- Attacco informatico coordinato: mentre tecnici e utenti cercano di fronteggiare i disservizi, un gruppo hacker sfrutta il caos e lancia un pesante attacco cyber contro un grande cluster europeo, ad esempio a Francoforte o Londra. I server rimanenti deviano il traffico verso centri secondari, che però vengono rapidamente saturati (come succede alle strade secondarie durante un ingorgo in autostrada), causando ulteriori interruzioni a cascata.
- Guasti nei sistemi automatizzati: il sovraccarico attiva un bug latente nell’infrastruttura cloud – magari un errore introdotto mesi prima da un software di intelligenza artificiale nei sistemi di Amazon o Google. Questo malfunzionamento, sfuggito ai controlli, inizia a propagarsi nei data center ancora attivi, facendo collassare componenti cruciali uno dopo l’altro. I nodi rimasti operativi non reggono l’ondata di richieste anomale e iniziano a cadere.
In pochi minuti lo scenario diventa drammatico: servizi di comunicazione come Signal e Slack smettono di funzionare, piattaforme di intrattenimento come Netflix si spengono, transazioni bancarie non vanno a buon fine e perfino dispositivi quotidiani connessi – dagli aspirapolvere robot ai termostati intelligenti – impazziscono o si bloccano. Con Amazon e Google fuori gioco, oltre il 60% del cloud mondiale risulta indisponibile. L’internet, a livello puramente teorico, esiste ancora – qualche rete locale isolata, sistemi decentralizzati come alcune reti peer-to-peer – ma per la stragrande maggioranza delle persone il web come lo conosciamo è di fatto “spento”. Sarebbe il primo vero blackout globale della rete: un evento senza precedenti, di cui possiamo solo intravedere le conseguenze.
Precedenti reali e campanelli d’allarme
Finora un collasso totale simile è rimasto confinato nella fantascienza, ma non mancano episodi reali che offrono un assaggio dei rischi. Il caso più vicino a un “Big One” sperimentato finora risale al 2016, quando un massiccio attacco DDoS colpì la società Dyn, che gestiva parte fondamentale del sistema DNS globale. In pochi istanti siti popolari – dal Guardian a Twitter (oggi X) – risultarono irraggiungibili, insieme a numerosi servizi online, a causa di quel singolo punto debole colpito dagli hacker. Fu un effetto domino preoccupante: un attacco mirato a un’infrastruttura centrale riuscì a provocare disservizi diffusi in varie parti del mondo, mostrando la pericolosità delle dipendenze nascoste nel nostro ecosistema digitale.
Ancora più devastante, per i suoi impatti economici, è stato l’attacco NotPetya del 2017. Nato come cyber-arma in un contesto di conflitto geopolitico, il malware si diffuse a macchia d’olio sfruttando aggiornamenti software compromessi e mise in ginocchio infrastrutture in tutto il mondo. In poche ore paralizzò porti navali, impianti di produzione, reti aziendali e persino computer di governo, distruggendo dati e sistemi ovunque si propagasse. Il bilancio finale fu stimato in oltre 10 miliardi di dollari di danni economici – cifre mai viste prima per un singolo cyber attacco. NotPetya è passato alla storia come uno degli attacchi informatici più distruttivi di sempre, paragonato da un consigliere della Casa Bianca a “una bomba nucleare” lanciata per ottenere un piccolo vantaggio tattico. Fortunatamente non mirava a spegnere Internet, ma ha dimostrato la capacità di un malware ben congegnato di causare danni sistemici globali, ben oltre l’obiettivo originario.
Anche interruzioni non dolose hanno rivelato la fragilità del nostro mondo connesso, come quella a diversi data center di Cloudfare accaduta oggi. Nell’ottobre 2025 un semplice guasto tecnico in un datacenter AWS ha causato un blackout di 15 ore che ha colpito oltre 2.000 aziende e milioni di utenti nel mondo. Servizi popolari come Snapchat, Roblox, Duolingo e persino i sistemi interni di Amazon si sono fermati; esami scolastici sono stati rinviati e molti lavoratori sono stati rimandati a casa impossibilitati a operare. Pur non essendo frutto di un attacco malevolo, questo incidente ha evidenziato quanto anche un singolo punto di guasto possa mettere in stallo intere attività quotidiane, dal tempo libero all’istruzione fino alla produttività aziendale. È un monito: se tanto caos può derivare da un errore, quali sarebbero le conseguenze di un attacco intenzionale e coordinato?
Conseguenze sistemiche e geopolitiche
Un attacco hacker globale ai data center e al cloud avrebbe conseguenze ben oltre i disagi tecnologici. Sul piano economico, il fermo contemporaneo di migliaia di servizi digitali provocherebbe perdite incalcolabili: transazioni finanziarie bloccate, borse valori in tilt, fabbriche e logistica ferme ai box. I costi diretti e indiretti potrebbero raggiungere cifre senza precedenti (basti pensare ai $10 miliardi di danni causati da NotPetya, che colpì un numero relativamente limitato di aziende). Sul piano sociale, intere popolazioni si troverebbero prive di comunicazioni e servizi di base: niente pagamenti elettronici, niente trasporti intelligenti, ospedali in difficoltà nel consultare dati sanitari, uffici pubblici paralizzati. La sicurezza nazionale dei Paesi sarebbe a rischio: con le comunicazioni militari e governative disturbate, le autorità dovrebbero probabilmente dichiarare lo stato di emergenza cyber, mobilitando unità di crisi per ripristinare le funzioni vitali.
Dal punto di vista geopolitico, un collasso del cloud metterebbe in luce gli squilibri di potere nel dominio digitale. Le nazioni più dipendenti da provider stranieri subirebbero un duro colpo, scoprendosi “colonie” digitali impotenti. È probabile che, dopo uno shock simile, i governi accelererebbero progetti per infrastrutture cloud sovrane o alternative locali (iniziative come Gaia-X in Europa nascono proprio dall’esigenza di ridurre la dipendenza dai giganti statunitensi). Inoltre, le tensioni internazionali potrebbero acuirsi: se l’attacco fosse attribuito a uno Stato o a un gruppo sponsorizzato da un governo, ci sarebbero ripercussioni diplomatiche e forse rappresaglie nel cyberspazio o anche fuori da esso.
In definitiva, il rischio di un attacco hacker globale ai data center e al cloud è uno scenario da incubo che speriamo di non dover mai vivere. Tuttavia, parlarne non è esercizio di fantasia ma un richiamo alla realtà: la resilienza dell’infrastruttura digitale è ormai fondamentale quanto quella delle reti elettriche, idriche o di trasporto. Gli esperti invitano a investire in piani di emergenza, sistemi di backup e cooperazione internazionale per prepararsi al peggio – perché nell’ipotesi di un “Grande blackout” di Internet, farsi trovare pronti potrebbe fare la differenza tra qualche giorno di caos e una crisi prolungata. Come insegna ogni incidente minore, la domanda non è più se possa accadere, ma quando e come reagiremo.


