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Bambini uccisi dalle madri: lo Stato protegge i genitori, non i figli?

Pubblicato: 20/11/2025 15:22

Due bambini uccisi dalle madri, a pochi giorni di distanza. Due storie diverse ma unite da un filo inquietante: un sistema di valutazione dell’affido che continua a fallire, ignorando segnali evidenti, denunce formali e soprattutto le paure espresse dai minori stessi. Le tragedie di Muggia e Calimera non sono solo drammi familiari, ma il manifesto di un problema strutturale che da anni si ripropone.

Un sistema che non distingue il conflitto dalla violenza: i casi recenti che ne svelano l’inadeguatezza

Nei procedimenti di separazione segnati da fragilità genitoriali, si attivano percorsi complessi che coinvolgono tribunali, servizi sociali, consultori e consulenti tecnici. In teoria, percorsi pensati per garantire la sicurezza dei bambini. In realtà, troppo spesso si confonde una separazione conflittuale con una situazione di reale violenza o rischio. E quando le dinamiche pericolose non vengono riconosciute, i minori diventano i primi a pagarne il prezzo.

Le storie di Giovanni e Elia mostrano come il sistema possa generare esiti opposti ma ugualmente tragici. Nel caso di Muggia, la madre era seguita dal centro di salute mentale e in un primo momento gli incontri erano stati protetti. Successivamente erano stati liberalizzati, nonostante precedenti episodi violenti, denunce del padre, un tentativo di strangolamento e le stesse paure espresse dal bambino. Nel caso di Calimera, invece, la madre aveva inviato all’ex marito messaggi inequivocabili, minacciando di “portare con sé” il figlio. Nonostante ciò, le era stato riconosciuto l’affido condiviso, con la sola limitazione di non allontanarsi col bambino. Lo ha ucciso in casa. Due esiti diversi, ma un unico errore: valutare il ruolo genitoriale prima della sicurezza del minore.

Cosa dicono davvero i dati sui figlicidi e la falla più grave

Per evitare narrazioni distorte, i dati Eures, osserva la psicologa e criminologa forense Margherita Carlini su Fanpage, fotografano un fenomeno preoccupante: in Italia si verifica un figlicidio ogni due settimane. Le vittime sono quasi sempre bambini sotto i 12 anni. Gli autori sono principalmente padri, soprattutto nei cosiddetti “suicidi allargati”, in cui l’annientamento del nucleo familiare rientra in un disegno omicida più ampio. Le madri uccidono più frequentemente figli molto piccoli, in contesti di forte fragilità psicologica.
La statistica mostra che il fenomeno è complesso e multiforme. Ma una cosa è chiara: serve la capacità di interpretare segnali di rischio che spesso precedono di molto la tragedia. Perché i bambini non muoiono “all’improvviso”.

Le recenti tragedie riportano al centro un tema fondamentale: chi decide non è sempre adeguatamente formato. L’indagine del Consiglio Superiore della Magistratura indica che solo una minima parte dei magistrati riceve una preparazione specifica sulla violenza in ambito civile. Inoltre, nella quasi totalità dei casi, i consulenti incaricati non possiedono competenze specialistiche in materia di violenza domestica e tutela dei minori. E raramente viene inibito il rapporto tra minore e genitore violento, nonostante indicazioni normative e raccomandazioni internazionali.
Questo quadro non solo indebolisce la capacità del sistema di proteggere i bambini, ma mette in discussione l’effettiva applicazione delle norme esistenti.

Un sistema che non ascolta i bambini: serve una riforma reale, non nuovi proclami

Dentro questo scenario, i minori diventano spesso soggetti non ascoltati. Le loro paure, i loro racconti, le loro richieste d’aiuto vengono svalutati rispetto a un’interpretazione talvolta astratta del “superiore interesse del minore”. Un principio fondamentale che però rischia di trasformarsi in un alibi quando non è accompagnato da un approccio realmente orientato alla tutela.
Le tragedie degli ultimi giorni non possono essere archiviate come fatalità. Sono il risultato di un sistema che valuta, interpreta e decide senza disporre di un adeguato bagaglio di competenze.

Ogni volta che un bambino muore in un contesto già monitorato, la domanda è sempre la stessa: quante segnalazioni erano state presentate? Quante paure erano state espresse? Quante valutazioni erano state affidate a professionisti non formati? Riformare questi percorsi non significa togliere diritti ai genitori, ma garantire ai minori ciò che spesso oggi non hanno: una tutela reale, concreta e tempestiva.
E la tutela reale inizia da un gesto semplice ma rivoluzionario: ascoltare davvero i bambini.

Foto di konrad dobosz su Unsplash

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