
Il piano Usa consegnato a Kiev segna un punto di svolta che Volodymyr Zelensky non può ignorare. La bozza, 28 punti che ripropongono limiti militari, rinunce territoriali e il divieto di armi a lungo raggio, arriva nel momento peggiore: mentre l’avanzata della Russia nel Donbass cambia gli equilibri sul terreno e lo scandalo corruzione indebolisce la leadership ucraina proprio nel cuore del potere. Zelensky, stretto tra le pressioni esterne e un Parlamento che si spacca, sceglie la strada più complessa, quella del rinvio. Non dice sì, non dice no. Dice che “ne parlerà con Donald” e che “le squadre lavoreranno” ai contenuti, ma nelle stanze del governo la proposta è giudicata irricevibile. Il punto è che Washington pretende un passo avanti, e la voce più pesante è quella di Trump, che invita apertamente Kiev ad accettare la sua soluzione. La Casa Bianca ribadisce che il piano “è buono per entrambi”, mentre il Segretario di Stato Marco Rubio parla di concessioni “difficili ma necessarie”. In pubblico Zelensky resta misurato, ma il malcontento interno tradisce la realtà: il pacchetto non è visto come un’apertura diplomatica, ma come una forma di pressione che rischia di ridurre il margine di manovra dell’Ucraina proprio mentre il fronte militare si fa più difficile da reggere.
La frattura nei Servi del Popolo
Il problema, però, non arriva solo dall’esterno. L’esplosione dello scandalo corruzione ha aperto una spaccatura violentissima nei Servi del Popolo, il partito che sostiene il presidente. La richiesta di dimissioni del capo dell’Ufficio presidenziale Andriy Yermak, accusato da una parte della maggioranza di essere il simbolo di una gestione opaca, è diventata il detonatore di una crisi che rischia di trasformare ogni voto parlamentare in un esercizio di equilibrismo. Zelensky ha deciso di difenderlo, ma così facendo ha diviso il gruppo e indebolito la sua stessa tenuta politica. Con 299 voti a disposizione e 296 necessari, ogni defezione diventa una minaccia. A guidare la fronda c’è David Arakhamia, il capogruppo, che per ore è stato a un passo dal licenziamento. In serata, nessuno è caduto, ma lo scontro ha lasciato cicatrici profonde. E mentre il presidente prova a tenere insieme i pezzi, la Russia avanza e gli Stati Uniti spingono per una trattativa da iniziare subito. “Dobbiamo restare uniti. Chi è contro di noi è per la Russia”, avrebbe detto Zelensky ai deputati. È una frase che rivela l’urgenza del momento, ma soprattutto la paura che il dissenso interno diventi un’arma nelle mani di chi vuole un’Ucraina più debole al tavolo delle trattative.
Un equilibrio geopolitico che non regge a lungo
La vicenda del piano americano non riguarda solo le clausole, ma il contesto globale che le rende possibili. Gli Stati Uniti stanno cercando di ricalibrare la propria presenza internazionale in un mondo in cui il Medio Oriente assorbe risorse e attenzione, la Cina accelera sulla competizione strategica e la politica interna impone una gestione più pragmatica dei conflitti aperti. L’Ucraina non è più il fronte prioritario, e questo sposta l’asse delle pressioni: Washington vuole stabilizzare la guerra rapidamente, mentre Mosca vuole guadagnare terreno prima che inizi qualunque negoziato. L’avanzata russa nel Donbass è anche un messaggio: presentarsi al tavolo con nuove posizioni conquistate. Zelensky è quindi schiacciato in mezzo, con un alleato che chiede concessioni e un nemico che vuole imporre il prezzo. Tutto questo mentre la sua maggioranza si divide e la fiducia nel governo si sgretola. È la combinazione più rischiosa dall’inizio della guerra: una leadership indebolita deve affrontare il momento in cui le decisioni diplomatiche pesano come le battaglie militari. E proprio ora, contro ogni logica, Kiev scopre di essere più sola.

