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Se la tutela diventa cieca: lo Stato che impone la normalità e ignora la felicità dei suoi bambini

Pubblicato: 25/11/2025 08:14

Il caso dei bambini del bosco è diventato uno specchio della nostra epoca: un tempo in cui lo Stato vede i rischi prima delle persone, le regole prima delle relazioni, la norma prima della vita. È giusto difendere i minori, è giusto intervenire quando una famiglia non garantisce condizioni adeguate. Ma c’è un punto politico, pedagogico e umano che non possiamo ignorare: la tutela non può trasformarsi in un gesto traumatico, immediato, irreversibile. Perché quando lo Stato arriva con l’unico strumento del distacco, senza tentare alcun accompagnamento, senza costruire alcun percorso, senza guardare il contesto reale dei bambini, allora quella tutela diventa una ferita. Diventa un’azione amministrativa che cancella sorrisi, che spezza legami, che sostituisce l’osservazione con l’ideologia dell’ipermodernità, secondo la quale tutto ciò che è fuori dal modello dominante è automaticamente pericoloso. Eppure la realtà mostrava una famiglia che viveva una scelta estremamente rurale, fuori tempo, ma non una situazione di infelicità. L’amore non basta a garantire tutto, questo è evidente; ma non può nemmeno essere ignorato come se fosse un dettaglio marginale davanti a una lista di requisiti tecnici.

«I bambini nel bosco possono tornare in famiglia. Ma i genitori devono collaborare»

Accompagnare invece di spezzare

Il punto centrale, politico prima ancora che pedagogico, è che la tutela dei minori non può ridursi a un’opzione binaria. Non esiste solo il dentro o fuori, il lasciare o l’allontanare. Esiste tutto il territorio del mezzo, che è il territorio della civiltà. Lo Stato deve essere presente dentro le famiglie, non solo contro le famiglie. I servizi sociali dovrebbero essere lo strumento più umano che abbiamo, e invece troppo spesso diventano la cinghia di trasmissione di regole che non sanno vedere l’amore. Qui non parliamo di bambini abbandonati a sé stessi, né di violenze, né di contesti degradati. Parliamo di una vita non conforme, sì. Parliamo di una scelta alternativa, sì. Parliamo di un limite oggettivo nei mezzi, certo. Ma il compito dello Stato non è strappare i minori da chi li ama: è trovare un modo per proteggere senza distruggere. Significa portare riscaldamenti sicuri dove non ci sono, significa monitorare la salute, significa accompagnare l’istruzione, significa costruire un equilibrio tra libertà familiare e responsabilità pubblica. La politica deve creare strumenti che permettano questo accompagnamento lento e continuo, senza ridurre tutto al gesto più estremo. Perché una società adulta non sradica: affianca. Non traumatizza: sostiene. Non annulla: integra.

Una politica che deve tornare a essere umana

Il caso dei bambini del bosco ci obbliga a porre una domanda più ampia: qual è l’obiettivo finale della politica quando si occupa di infanzia? Proteggere i bambini, o produrre adulti conformi? Se l’obiettivo è proteggere, allora la politica deve costruire un modello di intervento che tenga insieme la dimensione materiale e quella affettiva, la sicurezza e la continuità emotiva, il benessere e la libertà. Non possiamo più accettare un sistema che interviene con un automatismo quasi burocratico: segnalazione, verifica, trauma. È una sequenza che può essere funzionale per casi gravissimi, ma che diventa cieca se applicata a contesti non violenti, non tossici, non pericolosi. Una coppia che vive nel bosco non è una coppia criminale; una famiglia alternativa non è una famiglia che va punita; dei genitori che cercano una vita diversa non sono dei nemici dello Stato. La politica deve comprendere questo spazio intermedio, deve dotare i tribunali di strumenti più flessibili, deve costruire servizi sociali capaci di lavorare con tatto, con presenza quotidiana, con la fatica lunga del supporto. Perché la protezione dei bambini non è un atto istantaneo: è un processo. Non è un colpo di spugna: è un percorso educativo.

E allora, l’intervento pubblico deve essere giudicato su questo: quanto è capace di migliorare una famiglia senza distruggerla? Quanto è capace di salvare dei bambini senza cancellare la loro storia? Quanto è capace di distinguere tra povertà materiale e povertà affettiva? La politica dovrebbe investire per dare ai servizi sociali il tempo, le risorse, il personale e la formazione necessari a stare dentro le case, a capire i contesti, a misurare il rischio reale e non solo il rischio teorico. Perché se la tutela diventa solo applicazione fredda di parametri, siamo davanti alla vittoria del modello sull’umano, della norma sull’esperienza, dell’ideologia sull’evidenza.

La libertà delle famiglie di vivere in un modo diverso dal mainstream deve essere garantita, purché non produca danni concreti. E questo significa una cosa semplice: prima di strappare, bisogna tentare tutto. Bisogna portare luce dove manca, aiuto dove serve, educazione dove occorre, sostegno dove crolla qualcosa. Bisogna proteggere senza ferire. Bisogna ricordare che lo Stato non è il giudice della normalità: è il garante del benessere. E il benessere non si misura solo con i parametri tecnici: si misura anche con ciò che una regola non può contenere, con ciò che una relazione sa generare, con ciò che un bambino sa mostrare. Cioè con i suoi sorrisi.

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