
Il decreto sulle armi all’Ucraina doveva arrivare oggi in Consiglio dei ministri. È saltato. E nel vuoto lasciato dal testo non arrivato si è inserita la mossa più dura di Matteo Salvini da mesi: un messaggio chiaro a Giorgia Meloni, quasi uno schiaffo politico. Il leader della Lega non solo collega il voto del Carroccio alle inchieste sulla corruzione a Kiev, ma scandisce che deciderà il da farsi «quando il decreto sarà all’ordine del giorno». Tradotto: la Lega detta i tempi, non la premier. E soprattutto introduce un elemento di pressione che somiglia molto a un ricatto politico. Perché se non passa la linea leghista, gli equilibri del governo si complicano.
La frenata di Antonio Tajani sul Purl, il piano Nato di acquisti di armi dagli Stati Uniti, è il preludio. Ma è Salvini a trasformare la tattica in strategia: rivendica una posizione “pacifista” funzionale a rallentare ogni decisione, insiste sul fatto che «qualcuno ha voglia di nuove guerre» e avverte che l’Italia deve «riaprire ponti». La Lega – spiegano fonti interne – questa volta vuole davvero tenere Meloni sulla corda. Se il leader leghista aspetterà davvero venti giorni prima di decidere, si finirà all’ultimo Consiglio dei ministri dell’anno, il 23 dicembre, con appena otto giorni prima della scadenza della copertura legale per inviare armi a Kiev. Una pressione evidente su Palazzo Chigi.
Gli asset russi come leva di pressione
Il secondo fronte è quello dei 210 miliardi di asset russi congelati in Europa. Qui la Lega si muove in rottura netta con la linea governativa. Claudio Borghi dice che quegli asset «vanno restituiti a Mosca», perché usarli metterebbe a rischio la stabilità finanziaria europea. Susanna Ceccardi parla di una possibile fuga di capitali. E quando a Bruxelles prende forma l’ipotesi di coinvolgere il Mes come garanzia per eventuali prestiti collegati agli asset, la Lega risponde con un no invalicabile.
A Palazzo Chigi c’è consapevolezza che per l’Italia la soluzione del Mes avrebbe perfino vantaggi economici, visto che Roma dovrebbe garantire il 12% dei 140 miliardi che verrebbero sbloccati. Ma politicamente significherebbe uno scontro frontale con Salvini. Il leader della Lega lo sa e usa questo dossier come un’altra leva nel braccio di ferro con Meloni.
Una maggioranza ostaggio dei veti leghisti
Il risultato è che il governo appare prigioniero dei tempi e delle condizioni poste dalla Lega. Meloni assicura che il decreto «ci sarà», ma il segnale è chiaro: finché Salvini non concede il via libera, il provvedimento più delicato dell’intera politica estera della legislatura resta bloccato. Non si parla apertamente di crisi, ma la possibilità stessa di uno strappo viene trasformata in arma negoziale.
Per la premier è la pressione più forte dall’inizio del suo mandato. Il messaggio della Lega ormai è esplicito: senza di noi non si va avanti, e sui dossier più sensibili la linea la decidiamo noi.


