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AI, il vero bersaglio di Draghi è l’Europa che non sa decidere

Pubblicato: 04/12/2025 10:10

Nel suo intervento al Politecnico di Milano, Mario Draghi ha scelto parole che vanno oltre l’economia. Rivolgendosi agli studenti, la parte più dinamica del Paese, ha messo in chiaro che la sfida tecnologica globale non aspetta nessuno. L’Europa, invece, continua a farlo. Da troppo tempo. La cornice era l’inaugurazione dell’anno accademico, ma il suo discorso aveva il tono di un appello civile. E l’argomento dichiarato, l’intelligenza artificiale, era in realtà il cavallo di Troia per una diagnosi molto più radicale: il problema dell’Europa non è soltanto l’AI. È la nostra incapacità di decidere, rischiare, sbagliare, correggere. Draghi lo ha detto con quel suo stile chirurgico, che sembra neutro e invece incide come un bisturi: «La divergenza tra i Paesi che abbracciano l’innovazione e quelli che esitano si allargherà sensibilmente negli anni a venire». In altri termini, continuiamo così e rimarremo un museo ben organizzato, cortese, forse anche istruttivo, ma totalmente irrilevante rispetto ai grandi motori della crescita mondiale.

Draghi

AI, il vero bersaglio di Draghi è l’Europa che non sa decidere

Nel 2024, gli Stati Uniti hanno prodotto quaranta grandi modelli fondamentali di intelligenza artificiale. La Cina quindici. L’Unione Europea? Tre. Non è una statistica: è una diagnosi. E non serve un seminario di econometria per capire che siamo finiti in un vicolo cieco. L’abbiamo già visto con la prima ondata della rivoluzione digitale, quando la produttività europea si è dimezzata rispetto a quella americana. E lì non è stata “colpa della Silicon Valley”, ma del nostro modello politico, lento e terrorizzato dall’idea di esporsi al rischio. È questo il punto centrale del discorso di Draghi che forse non è stato colto (perché faceva comodo non coglierlo): non è la tecnologia che rallenta l’Europa. È la politica.

Draghi

L’Europa del “principio di precauzione” che diventa paralisi

Nel suo passaggio più duro (ed è raro che Draghi sia così esplicito) l’ex presidente del consiglio ha spiegato perché continuiamo a restare indietro: il principio di precauzione, nato per proteggere i cittadini, è diventato una sorta di camicia di forza. Abbiamo trasformato il nostro rapporto con l’innovazione in una sequenza di norme rigide, lente da aggiornare, costruite su timori spesso ipotetici. Il risultato? Un continente che tratta ogni tecnologia come se fosse un esperimento radioattivo. E che solo dopo, molto dopo, si accorge che il resto del mondo è andato avanti. Draghi non l’ha detto in questi termini, ma il messaggio era sostanzialmente questo: se continuiamo a gestire il futuro con le categorie del passato, non avremo né l’uno né l’altro. Solo stagnazione. Il GDPR, simbolo di questi anni, è l’esempio perfetto. Una tutela sacrosanta della privacy? Sì. Ma anche una macchina burocratica che ha penalizzato soprattutto le piccole imprese, rallentato gli investimenti e contribuito a spingere altrove gli imprenditori europei più dinamici. La famosa fuga dei talenti non è un fenomeno romantico: è spesso una scelta obbligata per chi non vuole essere soffocato in un continente che non guarda con favore alle novità. 

Draghi AI

La paura dell’incertezza come tratto dominante dell’Europa

L’Europa non sa gestire l’incertezza. Draghi è stato cristallino, in tal senso. Nessuno vuole rischiare. Nessuno vuole sbagliare. Nessuno vuole assumersi il peso di una decisione irreversibile. È l’esatto contrario di quello che serve in una fase storica in cui la tecnologia cambia ritmo ogni sei mesi. E la diretta conseguenza è la stagnazione economica. Che in Europa non è un incidente, bensì una scelta. Una scelta che si nutre di mille micro-decisioni rinviate, mille “vedremo”, mille “non abbiamo abbastanza dati per procedere”. E quando la paura guida, l’unica politica possibile è il rinvio. 

L’altra faccia del discorso: l’AI come strumento di equità

Eppure, sarebbe ingiusto ridurre tutto a una invettiva pessimista. Del resto, Mario Draghi per natura non lo è. L’economista ha fatto nel suo intervento a Milano qualcosa di più sottile: ha rovesciato la narrazione dominante secondo cui l’AI è una minaccia per i più fragili, asserendo l’esatto contrario. Gli strumenti di triage basati sull’AI che riducono del 55% i tempi d’attesa nei pronto soccorso americani non sono specchietti per le allodole, ma strumenti di giustizia sociale. Significa che una persona vulnerabile viene curata prima, meglio, senza dipendere dal caso, dal medico giusto al momento giusto o dalla buona volontà dell’amministrazione locale. Lo stesso vale per l’istruzione: le piattaforme automatizzate che migliorano le performance degli studenti dal 35° al 60° percentile, e ancora di più per i ragazzi svantaggiati, sono una rivoluzione democratica che stiamo lasciando agli altri. Qui Draghi fa un passaggio che avrebbero potuto sottoscrivere Don Milani e Amartya Sen: l’AI è un’occasione di equità, non un mostro. Dipende dalle scelte politiche. E di nuovo: il problema siamo noi. Draghi ha anche ricollegato tutto a un tema che molti preferiscono evitare: il debito. Un continente che non cresce non può sostenere né welfare, né sicurezza, né transizione ecologica, né ambizioni geopolitiche. Se il Pil resta fermo e gli interessi corrono, prima o poi arriva il conto. 

L’appello di Draghi agli studenti del Politecnico di Milano

Nella chiusa Draghi si è rivolto ai ragazzi del Politecnico, ma in realtà stava parlando a tutta Europa: non temete l’incertezza, abbracciatela. Non scegliete il percorso più sicuro: prediligete quello che permette di produrre idee. Non scappate all’estero per forza, ma pretendete che il vostro Paese vi dia le condizioni per restare. È un discorso europeo, non italiano; generazionale, non accademico. E soprattutto, un discorso di coraggio. Il punto, allora, qual è? Che l’AI non è il cuore centrale dell’ultimo appello dell’ex premier. È solo il test della nostra capacità di decidere chi vogliamo essere nei prossimi vent’anni. Gli USA rischiano, la Cina investe, l’Europa discute. Draghi lo sa, e lo dice da tempo: senza una svolta, resteremo la nota a piè pagina della storia tecnologica. Il progresso non aspetta. L’Europa, ahinoi, sì. 

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