
Donald Trump non usa mezzi termini. Nel giro di poche settimane la Casa Bianca ha pubblicato una nuova strategia di sicurezza in cui si afferma apertamente che gli Stati Uniti non faranno più da Atlante per tenere in piedi l’ordine mondiale. Lo dice senza filtri, senza il lessico morbido dei presidenti precedenti, e soprattutto lo dice riferendosi direttamente all’Europa. Nello stesso periodo ha definito diversi Stati europei “nazioni in declino”, ha accusato il continente di essere incapace di difendere sé stesso, ha attaccato la gestione europea della guerra in Ucraina e ha indicato la NATO come uno strumento da ripensare in chiave transazionale. È un linguaggio che non lascia spazio al fraintendimento. Ed è proprio questa radicalità a rendere evidente la verità che per decenni abbiamo evitato: l’ombra del secondo dopoguerra non esiste più. E se l’Europa vuole restare un attore, oggi ha l’occasione decisiva per prendersi in mano il proprio destino.
Gli ultimi mesi hanno confermato una tendenza di lungo periodo: l’America considera prioritarie le sfide interne, la competizione con la Cina, la sicurezza dei propri confini e la ricostruzione dell’industria aerospaziale e militare americana. L’Europa non è al centro di questa agenda. Trump lo dice apertamente: i paesi europei devono pagare di più, produrre di più, assumersi più responsabilità. Non perché l’America voglia abbandonare l’Europa, ma perché non intende più farsi carico in modo automatico della sua sicurezza. È un cambiamento storico, non comunicativo. E per quanto possa sembrare destabilizzante, rappresenta esattamente il punto che il continente ha rinviato per settant’anni.

Scelta epocale, non ideologica
La forza del momento che stiamo vivendo è che supera tutte le vecchie categorie politiche. Non è una questione tra europeisti e scettici, né uno scontro tra destra e sinistra. La domanda che Trump ci mette davanti riguarda tutti, indistintamente. L’Europa è disposta a diventare adulta sul piano strategico? Oppure intende rimanere un gigante economico che delega la propria sopravvivenza militare? Anche i leader più diffidenti verso un’Europa centralizzata sanno che in un mondo dominato da rivalità tra superpotenze la vulnerabilità sarebbe un costo incalcolabile. E allo stesso tempo chi ha sempre sostenuto il rafforzamento dell’Unione capisce che il tema non è più costruire modelli astratti, ma garantire la capacità del continente di reagire alle crisi.
Negli ultimi mesi, Trump ha criticato apertamente le esitazioni europee sull’Ucraina, ha messo in discussione l’allargamento della NATO, ha affermato che l’Europa “parla troppo e agisce poco”. Sono colpi diretti che nella sostanza non fanno che accelerare un processo inevitabile: senza una responsabilità strategica comune, il continente resterà sempre dipendente dalla volontà politica americana. La scelta che si apre ora è epocale perché riguarda la sopravvivenza geopolitica dell’Europa. E questa scelta non è di una parte politica: riguarda tutte le famiglie ideologiche, perché tutte vivono nello stesso mondo reale, esposto agli stessi rischi e alle stesse fratture.

L’occasione che non tornerà
Crescere significa capire che la pace non è un regalo della storia, ma una costruzione attiva. Significa smettere di pensare all’Europa come a un grande mercato con qualche automatismo di sicurezza e iniziare a vederla come un soggetto in grado di proteggere mezzo miliardo di persone. Gli Stati Uniti non scompaiono, ma cambiano ruolo. Trump, con i suoi toni duri e diretti, ci obbliga a scegliere se continuare a vivere nella dipendenza strategica o se iniziare a costruire quello che non abbiamo mai avuto: un pilastro europeo della difesa, dell’industria militare, dell’energia, delle tecnologie critiche.
Non si tratta di creare uno Stato federale domani mattina. Si tratta di fare il passo minimo che ci rende credibili: coordinare le capacità, mettere insieme risorse, definire la postura comune verso il Mediterraneo, sostenere l’Ucraina, proteggere le nostre infrastrutture e il nostro spazio tecnologico. Questa scelta è di destra e di sinistra, nazionale e sovranazionale, moderata e radicale. È la scelta che definisce se l’Europa sarà un attore nella storia che viene, oppure un luogo attraversato dagli eventi senza la capacità di influenzarli.
Trump non è un alleato dell’Europa. Ma è, paradossalmente, la sua occasione più grande. Perché con il suo stile brutale elimina l’ultimo alibi. E ci mette davanti a un passaggio che non tornerà più: diventare finalmente ciò che siamo sempre stati destinati a essere, o restare per sempre ciò che siamo stati finora.


