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Paola Perego, la rinascita dopo 30 anni di lotta contro gli attacchi di panico

Pubblicato: 14/07/2020 16:41

Adesso tutti sanno chi sono. Con queste parole inizia a raccontarmi il suo calvario Paola Perego e dove le parole non sono sufficienti a cogliere la sfumatura è il tono liberatorio che rende l’idea della sua rinascita. Un prima e un dopo, una porta tenuta chiusa per 30 anni dietro la quale ha agito il suo invisibile “mostro”: gli attacchi di panico. Un dolore tenuto nascosto e mascherato dal sorriso di una conduttrice apparentemente perfetta, intimamente divisa tra ciò che il mondo credeva lei fosse e quello che lei era davvero.

Paola Perego racconta i suoi 30 anni di lotta tra prove di sopravvivenza, momenti di morte imminente e tiepide risalite. L’umanità di una bugia gridata al mondo temendo il giudizio e l’incomprensione, la sofferenza di una menzogna sussurrata ai figli nella speranza che nascondendo loro il proprio dolore, non l’avrebbero mai potuto conoscere. Un’istantanea intima e reale che ammette momenti in cui, pur di rendere tangibile e visibile la sofferenza, il dolore è stato rincorso fisicamente.

Dopo 30 anni di sensi di colpa, senso di inadeguatezza e inviolabile solitudine col sostegno degli affetti, percorsi di psicanalisi e coraggio, ad aprire la porta dietro la quale si agitava il mostro è stata la stessa Perego, trovando sorprendentemente sé stessa: una donna fragile, semplicemente umana e non la wonder woman che pensava di essere, una persona oggi fiera delle sue imperfezioni, orgogliosa delle sue debolezze, punto di forza per alzare la testa e riscoprirsi non solo fuori dal tunnel ma orgogliosa di rivivere e descrivere un calvario triste e sincero in cui potersi riconoscere e permettere di capire, a chi non l’hai mai vissuto, cosa significa convivere e talvolta sopravvivere appena con un mostro.

Quella verità che non ha detto per 30 anni

Dopo anni sul piccolo schermo per la prima volta ti sei cimentata in un’impresa da scrittrice, com’è stata questa esperienza e come è nata l’idea?

È stata un’esperienza faticosa perché non sono una scrittrice e per questo in molti mi hanno detto ‘che libro coraggioso’, io direi invece proprio da incosciente! Questo perché sono una che o dice tutto o non dice niente, scrivendo viene ancora più facile dire senza alcun tipo di filtro. L’idea nasce da una serie di cose: era da un po’ di tempo che pensavo di scrivere la mia storia personale così che i miei figli potessero conoscerla.

Quando i miei figli erano piccoli io negavo e nascondevo gli attacchi di panico soprattutto da loro proprio perché non volevo che potessero mai incontrarli nella loro vita. Un giorno ho incontrato questa persona di Piemme che mi ha proposto di scrivere la mia storia, perché parlando con lei avevo raccontato dei miei attacchi di panico e così, anche in maniera un po’ incosciente, è nato questo libro. Oggi sono molto serena, ne sono fuori da qualche anno, anche se rivivere quei momenti per scrivere tutto non è stato piacevole.

Come è stato far riaffiorare certi ricordi?

È stato strano. Ero convinta di aver superato tutto ma mi sono resa conto di averlo fatto senza dirlo a nessuno. Proprio io che ero quella che diceva che bisognava parlarne, un po’ come per la depressione: all’inizio non se ne parlava perché era una cosa di cui vergognarsi, poi alcuni attori famosi hanno incominciato a raccontare che avevano la depressione e si è sdoganata. Io pensavo che anche con gli attacchi di panico bisognasse fare questo, però in realtà nella vita quotidiana, io non lo dicevo a nessuno.

Quanto è difficile spiegare e raccontare un dolore invisibile come quello degli attacchi di panico?

Chi non lo ha mai avuto non può capire, non può davvero comprendere fino in fondo, è impossibile.

Come hai pensato di spiegarlo?

Ho fatto questo: ho preso una mia amica bravissima, carissima, l’autrice Serena Costantini e ogni qualvolta che scrivevo le mandavo qualcosa. Lei la leggeva, non ha mai avuto gli attacchi di panico, e mi faceva poi un riassunto così capivo se lei aveva capito o no. Alla fine lei ha capito pur senza averli mai avuti.

La sensazione di morte imminente

Se dovessi descriverlo, che cos’è per Paola un attacco di panico?

È una sensazione imminente di morte. È come se fossi dentro una bolla, sei concentrata sui tuoi sintomi fisici e hai la sensazione che nessuno ti possa salvare. Sei solamente concentrata sul tuo corpo, sui sintomi che ti sta dando, la tua paura, sei totalmente scollegata dall’esterno.

Nel libro racconti il tuo primo attacco di panico all’età di 16 anni, cosa ricordi di quel momento?

Mi ricordo tutto perché gli attacchi di panico non si dimenticano, soprattutto il primo e quelli in situazioni particolari, tali che poi non riesci più a ripercorrere ovviamente. Ero in macchina e stavo tornando a casa dopo una cena, una festa con un ragazzetto dell’epoca sulla provinciale, mi ricordo anche il punto della strada che porta da Monza a Brugherio, dove io sono cresciuta. Ad un certo punto stavo parlando, ho respirato e l’aria non è entrata, è stato panico immediato.

Come hanno reagito le persone intorno a te?

Non erano preparati, quando io avevo 16 anni gli attacchi di panico non si conoscevano molto bene. Se adesso vai in ospedale con un infarto ti dicono subito ‘attacco di panico’ ma all’epoca non si conosceva proprio il termine, la patologia, per cui mia madre mi portò subito dai medici che mi dissero ‘esaurimento nervoso’. Ovviamente però non era una diagnosi. Feci tutti i controlli fisici e quando i dottori dissero a mia madre ‘sua figlia non ha niente’, è cominciato un continuo ripetermi ‘devi avere forza di volontà’, ‘devi reagire’ ma non era così. La realtà è che ti senti inadeguata e non riesci a reagire contro qualcosa che non sai cos’è, non stai bene e ti senti morire continuamente.

Ogni quanto arrivavano gli attacchi di panico?

Molto spesso perché la cosa terribile dell’attacco di panico è la paura della paura, non l’attacco di panico in sé. L’attacco in sé ha la sua durata: 20 minuti, mezzora massimo e poi finisce. Il problema è che dopo che hai avuto il primo attacco è così terribile che vivi nell’angoscia che ti possa ritornare e ti prende quella paura che poi te li fa tornare continuamente.

Quanto pensi abbiano condizionato la tua vita?

Me l’hanno condizionata tantissimo perché alla fine continuavo a togliermi cose, occasioni, momenti che potevo fare. Se mi veniva un attacco di panico in macchina, per esempio, non guidavo più per anni; mi è venuto un attacco di panico mentre mangiavo qualcosa di solido e ho trascorso un mese mangiando solo cibo liquido. Ogni volta che si vive un attacco di panico in una situazione specifica si ha poi il terrore che ripercorrendola l’attacco ritorni. A seconda della cura farmacologica che mi davano avevo poi dei periodi in cui riuscivo effettivamente a fare delle cose ma solo perché mi sentivo coperta dai farmaci e quelli che mi davano erano belli tosti.

Dietro le quinte di una carriera televisiva apparentemente perfetta

Come vivevi gli attacchi di panico coniugati al lavoro in televisione?

Lavorare è l’unica cosa che non ho mai smesso di fare. Non ho mai saltato un appuntamento, una puntata per un attacco di panico.

Come hai vissuto l’ansia della diretta?

No perché quella della diretta è un’ansia reale, palpabile e c’è da dire che da quando sono stata male sono sempre stata seguita a livello farmacologico, altrimenti non sarei potuta andare in onda. Ma al di là di tutto avevo un fortissimo senso del dovere ereditato da mio padre per cui anche piegati in due si va a lavorare e soprattutto avevo bisogno di guadagnare per vivere, non avevo molte alternative. Oltretutto per mia esperienza personale sento di poter dire che l’attacco di panico nasce anche da una scarsa conoscenza di sé. Quando si fa un lavoro come il mio ci si cala in una parte, io recitavo il ruolo di brava presentatrice ed ero quindi senza emozioni, senza sentimenti… poi tornavo a casa, rientravo, e mi veniva l’attacco di panico.

C’è stato un momento in cui hai rischiato di non andare in onda?

Mi ricordo un programma in particolare, si chiamava Quando c’è la salute su Telemontecarlo e andava in onda in prima serata il lunedì, era il 1991. Mi chiamano per fare questo programma, dovevo fare la prima puntata e la sera prima comincia il panico, l’angoscia. Ho passato tutta la notte senza chiudere occhio, la mattina chiamo una mia amica che era anche la mia costumista e le dico ‘io non vengo, non ce la faccio’.

All’epoca andavo da una psichiatra a fare terapia cognitiva ed era amica di questa mia amica costumista che è andata a prenderla e me l’ha portata in camerino. Ho fatto tutta la puntata con lei lì e mi sentivo tranquilla, qualunque cosa fosse successa c’era lei che sapeva cosa fare. Quella è stata l’unica volta che veramente ho rischiato di non andare in onda.

Ora che tutti sanno, che reazioni hai ricevuto dai colleghi?

La prima a chiamarmi è stata Antonella Clerici, mi ha detto: “Ma come Paolina adesso capisco perché quando facevamo delle cose eri sempre in disparte, ma perché non me l’hai detto?”.

Nessuno si è mai accorto di nulla, nessuno ti ha mai chiesto?

No, non c’era questo livello di confidenza. Nel mondo dello spettacolo se c’è qualcuno che sta un po’ sulle sue può essere anche solo snob, non è detto che stia male. Passavo per algida, distaccata, fredda.

Cercare il dolore fisico per dimenticare quello morale

Racconti nel libro di quando, per distogliere la tua mente dall’ansia, hai provato a romperti un braccio. Perché sei arrivata a questo?

Cerchi un dolore vero per combatterlo, se so che ho un polso rotto mi fa male e mi preoccupo di quello, non penso ad altro.

Pensi sia stato questo il momento più buio?

Ce ne sono stati tanti, ricordo quando di notte andavo al Pronto Soccorso, mi ci portava mia madre perché non respiravo, non camminavo, avevo formicolio alle gambe, alla lingua, alle mani. Di momenti difficili ce ne sono stati veramente tanti e non ce n’è uno peggio di altri: ogni volta, ogni attacco di panico, ogni singolo attacco di panico è una sensazione di morte e credo che non ci sia un momento peggiore.

Lo chiamavo mostro, adesso ho scoperto che il mostro sono io

All’attacco di panico hai dato un nome, mostro:

Lo chiamavo mostro, adesso ho scoperto che il mostro sono io. Quel mostro era una parte di me che mi diceva ‘è inutile che fai finta di niente, guarda che hai ancora qualcosina da sistemare’.

E sei riuscita a sistemarlo?

Sì certo, è la conoscenza di sé, sembra banale ma è questo. Se ti conosci profondamente impari ad accettarti con tutti i tuoi limiti, con tutti i tuoi difetti e a quel punto vivi serena. Io non potevo stare sola perché quando stavo sola mi ritrovavo con me stessa, con una sconosciuta e questa cosa mi terrorizzava.

Che cos’è che hai dovuto accettare di te?

Intanto i limiti, ero convinta di essere una wonder woman che doveva e poteva saper fare tutto in qualunque momento. Per esempio non sentivo la stanchezza: potevo lavorare 25 ore sotto farmaci e non essere mai stanca, dovevo sempre dare il massimo. Adesso so quali sono i miei limiti, quando mi devo fermare e non c’è niente da fare perché mi ferma il mio corpo. Poi ho dovuto accettare la timidezza, la vecchiaia e il dover sopportare di veder soffrire le persone che hai intorno.

In che senso?

Per me al problema doveva corrispondere una soluzione ed io ero quella che poteva trovare una soluzione ai problemi di tutto il mondo. Per me non ce l’avevo quindi concentrarsi sugli altri era un modo per distogliere l’attenzione da me. Solo col tempo ho capito che non sono wonder woman, che non ho io la soluzione a tutti i problemi delle persone a cui voglio bene e anche che a volte le persone, i problemi, se li creano da sole e da sole se li devono risolvere ma non è stato facile. Quando non sai chi sei sei quello che gli altri ti rimandano come immagine per cui per ogni cosa buona che fai ti ritorna un’immagine di te buona, cerchi di mettere dei tasselli.

C’è stato un pensiero, un’immagine, un gesto che ti ha aiutata nei momenti più duri?

Ciò che mi aiutava di più era distrarre la mente: giochi elettronici, game boy, parole crociate etc., tutto ciò che mi obbligava a concentrarmi su altro. Giravo sempre con le parole crociate in borsa ma in realtà facevo di tutto per non pensare che è ovviamente la cosa più sbagliata.

L’esorcista e i percorsi di psicanalisi

Qual è stato, se c’è stato, il momento in cui Paola ha capito che contro quel mostro poteva vincere?

No, io ho sempre pensato che non ne sarei mai potuta uscire. Ho fatto tre percorsi di psicoanalisi cognitiva: facevo il primo, lo terminavo, mi sembrava di aver capito tutto, stavo bene per un periodo e poi capivo che c’era altro quindi ho poi ripreso col secondo percorso, poi ho fatto il terzo. Poi, una mattina mi sono svegliata, e ho detto ‘caspita, sono 3 giorni che non penso agli attacchi di panico’, e lì, in quel momento, ne ero fuori.

Sempre nel libro racconti anche del giorno in cui ti sei rivolta ad un esorcista:

È stata mia madre a portarmici, io ero tanto piccola e i medici dicendo ‘non ha niente’, non sapendo più cosa fare, mi avevano instillato il dubbio che io potessi essere posseduta perché le crisi un po’ si assomigliavano.

La vergogna e la paura di essere giudicati deboli

Perché chi soffre di attacchi di panico è portato a nasconderli?

Perché le persone ti dicono che non hai carattere e che sei debole. Quando non respiri ma l’aria c’è ti chiedono ‘come fai a non respirare se l’aria c’è? Il medico ti ha detto che tu non hai niente ai polmoni né al cuore, devi metterci forza di volontà”, ma non c’entra niente. L’autostima si azzera e per non sentirsi deboli si tende a mascherare perché come lo spieghi?

È un male invisibile. Per un periodo una sera sì e una sera no ero al Pronto Soccorso per fare dei controlli pensando fosse un infarto. Mi hanno ribaltata come un pedalino ma io fisicamente non avevo nulla e hanno ricominciato a dirmi ‘sei stata dal medico ieri, lo sai che non hai nulla, un po’ di forza di volontà sù’. Ma non è il “dai sù”, ti senti male perché non ce la fai nonostante tutti ti dicano “stai bene, non hai niente”. E proprio per questo, per dimostrare agli altri che non sei un’ameba, che hai un po’ di carattere e un po’ di personalità nascondi perché te ne vergogni. Non sai come dire “non ce la faccio” perché appare come se fosse solo responsabilità tua, ma non è così.

Un male nascosto a tutti: le bugie e il pregiudizio

Sul luogo di lavoro hai sempre nascosto tutto anche ai colleghi?

Certo anche perché loro erano quelli che facevano la televisione, io ero una capitata lì e non si capiva perché. Ero quella che stava male e che valeva zero.

Come hai fatto a combattere il secondo mostro, il pregiudizio nei tuoi confronti?

In realtà non l’ho combattuto perché per me era un dato di fatto, me ne sono accorta solamente dopo. Quando lo vivevo, per me, era la mia condizione naturale: io avevo la convinzione di essere capitata lì e non si capiva perché sceglievano me che ero così poco. Me la vivevo normalmente, non era un pensiero costante perché quello era per il mostro.

Quando ti sei resa conto che non era quella la tua condizione naturale, come hai reagito?

Quando ho cominciato a non pensare agli attacchi di panico e finita la terza psicanalisi, mi sono resa conto che mi rapportavo con le persone in maniera diversa.

Cosa diresti ad una persona che si trova a vivere gli attacchi di panico per la prima volta o contro i quali combatte da anni?

Gli direi curarsi immediatamente, di fare un percorso di psicanalisi, di conoscersi a fondo. Quando hai un attacco di panico sembra che dietro la porta chiusa ci sia un mostro, solo una volta aperta puoi renderti conto che in realtà c’era solo un gattino. La verità è che fa molto più male vivere l’attacco di panico che non ammettere il problema che te lo crea però certo, questo col senno del poi. Però sì, gli direi di curarsi, di prendere farmaci per fare una vita normale perché diversamente non vivi e gli consiglio la psicanalisi per arrivare a fondo del problema e risolvere definitivamente questa cosa subito, non si deve aspettare. C’è un forte pregiudizio nei confronti dei farmaci.

Perché pensi si provi vergogna?

È una vergogna che nasce dalla paura di non essere capiti che è la cosa peggiore in quei momenti. L’ideale sarebbe non essere giudicati.

L’amore per Lucio Presta: la forza di un amore che non giudica

In che modo l’amore per Lucio Presta ha influito sugli attacchi di panico?

L’amore non è stato la cura: accade nelle favole, nella vita non è così. Ho però sicuramente trovato una persona che non mi ha giudicata. Lui non aveva mai avuto gli attacchi di panico e forse ha avuto anche difficoltà a comprenderli ma in quei momenti lui non mi giudicava, mi dava forza. Lui ha visto tutto, è la persona che mi conosce di più in assoluto.

È arrivato un momento in cui hai deciso di raccontargli tutto o è successo senza che lo volessi?

Non gliel’ho raccontato, è successo. Partivamo per il primo weekend da soli, in macchina in autostrada e quella per me era la condizione peggiore. Io avevo il pensiero fisso agli attacchi di panico anche in quel momento ma lui non lo sapeva. Credevo che se lui l’avesse saputo mi avrebbe cacciata pensando ‘una così, con così poco carattere’. Ricordo che avevo la borsa sul sedile posteriore e in autostrada ho iniziato a sentire i primi sintomi e non sapevo come fare perché di solito prendevo le pasticche di nascosto. Non avevo proprio idea su come prendere la borsa anche perché Lucio è uno di quelli che nota tutto. Ad un certo punto ha visto che cominciavo ad affannare, si è fermato sul ciglio della strada e lì è nato “casetta”: lui mette le mani vicino al mio viso, io mi avvicino alle sue mani e quello è un luogo dove si può dire tutto e fare tutto, dove non si viene giudicati.

E ti è passato? Lui come ha reagito?

Sì mi è passato ed era la prima volta che mi succedeva senza prendere farmaci. Lui mi diceva solamente parole rassicuranti come ‘Stai tranquilla, adesso passa, me l’hai detto tu che ti passa, non succede niente, stai tranquilla, respira, lo conosci, ti passa’. Poi ha iniziato a parlarmi d’altro e a distrarmi.

Hai avuto paura di perderlo?

Si, all’inizio e anche nel mentre. Nonostante lo sapesse all’inizio prendevo i farmaci di nascosto perché mi ero convinta che non potesse stimarmi per quello che ero e non avere la stima dell’uomo che ami è terrificante.

Ti ha scoperto prendere farmaci?

Sì, un sacco di volte. Mi guardava e mi diceva ‘sta arrivando eh?’. Lui è molto ironico e mi ha aiutato ad alleggerire.

Se dovessi descrivere il vostro rapporto con un’immagine?

Io lavoro molto per immagini, lo si fa quando si hanno gli attacchi di panico. Lui è la calma e la burrasca insieme. Se dovessi descriverlo direi che è un mare in burrasca ma con una barca molto solida a cui non succederà nulla e sopra le nuvole c’è un sole meraviglioso. La cosa importante del nostro rapporto è che non siamo mai caduti nella routine: si ride, si litiga, non ci si parla, non ci si sopporta.

Paola Perego oggi

Il tuo libro ha un titolo che è molto significativo: “Dietro le quinte delle mie paure” . In che modo è cambiata la tua vita?

Il passato poteva essere sicuramente diverso ma oggi sono così contenta di me, con tutti i miei difetti, con tutti i miei limiti che credo di essere proprio una bella persona e sembrerà presuntuoso ma non lo è. Mi sono sentita niente per tanti anni, oggi mi sento veramente una bella persona, una bella amica, una bella compagna e sono molto felice di questo.

Credo che se avessi avuto un carattere diverso probabilmente avrei avuto consapevolezza di me 30 anni fa e non avrei dovuto passare attraverso questo calvario. Sembra banale e un po’ retorico ma tutto questo mi ha portata ad essere quella che sono oggi anche se me lo sarei evitata molto volentieri. Adesso però ne sono uscita e sono serena, molto serena.

Come ti senti ora a parlarne?

Io sono felice, felice di aiutare le persone. Ho tantissime persone che mi scrivono in privato, su Instagram, con le quali dialogo e alle quali cerco di dare speranza e mi piace, mi piace l’idea di essere d’aiuto per qualcuno. Ora sento tutte le emozioni, i sentimenti; prima ero schermatissima perché ogni cambiamento avrebbe potuto crearmi un attacco di panico e cercavo per questo di tenere tutto sotto controllo.

Che poi era fittizio perché il controllo in realtà lo perdevi:

Sì, pensi di poter controllare le tue emozioni e poi invece da qualche parte vengono fuori.

Le bugie ai figli e il primo attacco di panico di Riccardo

Ai tuoi figli non hai mai raccontato nulla, quando l’hanno scoperto?

L’hanno scoperto quando ho scritto il libro. Non mi hanno mai vista e io avevo paura che potessero incontrare il mostro, ero terrorizzata.

Quanto è stato difficile nasconderglielo, cosa gli raccontavi?

É stato complicatissimo nasconderlo. Andavo a periodi: c’era il periodo in cui non guidavo e loro mi chiedevano “mamma mi accompagni a casa dell’amichetto?”. Io dicevo che avevo mal di testa, male a una caviglia, un attacco di cervicale.

Come ti sentivi a mentirgli?

Male, una mamma inadeguata. Avevo dei sensi di colpa assurdi nei loro confronti.

Cosa temevi sarebbe successo dicendogli la verità?

Avevo paura che incontrassero il loro mostro, era così doloroso che non volevo che i miei figli potessero provare questa sensazione e ho pensato che se loro non avessero saputo della sua esistenza non avrebbero mai potuto provarlo. Poi un giorno mio figlio mi ha chiamata, stava male e ho capito subito che era un attacco di panico. In quel momento mi è crollato il mondo addosso.

Come ti sei sentita?

Male, male. Ho pregato affinché tornassero a me e non a lui ma devo dire che tutta la mia esperienza mi è servita. Ha iniziato a curarsi subito e in un anno li ha ammazzati, ha vinto lui. Il disegno che c’è all’inizio del libro è suo, è lui che disegna un attacco di panico. Per molti è un disegnino ma guardandolo bene si capisce che è un attacco di panico. Ora che è uscito il libro mi hanno detto che capiscono, perché non li accompagnavo mai, riescono a darsi risposta a tutta una serie di domande che si erano posti e che sono rimaste lì. Riccardo si è molto commosso leggendo il libro.

Prima mi vedevano wonder woman esattamente come ho voluto che loro mi vedessero, adesso lo vedo proprio nei loro atteggiamenti che hanno la percezione delle mie debolezze, delle mie fragilità. Mi vedono più umana.

Com’è ora il vostro rapporto?

Ora il nostro rapporto è molto più maturo, paradossalmente si sentono di potermi confidare i loro momenti di difficoltà e io provo ad aiutarli quando posso, a non giudicare e a non dare consigli se non sono richiesti.

Ultimo Aggiornamento: 14/07/2020 20:33