Non c’è confronto neanche nei tassi di positività
L’indifferenza, il sospetto e l’aria di sufficienza su quanto avviene o non avviene in Estremo Oriente appaiono quasi una sorta di negazione senile di un Occidente che come un vecchio testardo non vuole ammettere di essere diventato bolso, lento, inefficiente e rinunciatario. In realtà anche l’indicatore più seguito da chi vuole verificare l’efficienza del tracciamento, il tasso di positività, ovvero la percentuale di positivi sui tamponi fatti, mostra che il confronto non regge.
In Italia secondo gli ultimi dati dei primi giorni di novembre eravamo al 13,9%, in Francia al 15,4%, in Spagna al 12,3%. In Giappone non si andava oltre il 3,1%, in Corea del Sud oltre l’1%, e parliamo di decimali a Taiwan, in Vietnam e in Thailandia.
E proprio il tracciamento è il punto centrale. L’Europa si è rassegnata al fatto che non sia possibile farlo in modo massiccio, ci prova maldestramente quando i casi sono ormai troppi, si perde in bandi tardivi al personale, in burocrazia, gare, proteste sindacali (come quelle dei medici di famiglia sui test rapidi). Le notizie sui 4,7 milioni di test fatti a Kashgar, in Cina, in pochissimi giorni, sui 5 milioni effettuati a Quingdao in ottobre, appaiono quasi solo come bizzarre curiosità che provengono da un mondo alieno.
