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Non sono una signora (e nemmeno una donna rettore)

Pubblicato: 23/11/2020 08:03

Una settimana fa è stata eletta, dopo sette secoli (Alleluia!), una rettrice alla prestigiosa e storica Università La Sapienza di Roma: Antonella Polimeni.

Quando è uscita la notizia alcuni giornalisti si sono davvero sbizzarriti. C’è chi l’ha definita semplicemente rettore, e chi, peggio, si è lasciato andare al bizzarro accoppiamento rettore-donna o donna-rettore, che farebbe pensare più a un’eroina della DC, donna gatto (Catwoman), che a una docente che è stata eletta democraticamente per il ruolo di rettrice.

Che sia la prima donna a ricoprire questo incarico, non giustifica il fatto di usare il sostantivo donna prima o dopo la professione; si sarebbe potuto scrivere semplicemente: Antonella Polimeni è la prima rettrice a rivestire questo incarico alla Sapienza dopo ben 717 anni.

Il femminile: un problema di ruolo

I femminili di professione, lo leggiamo e lo vediamo praticamente tutti i giorni, non sono ben visti da tutti.
Ognuno ha le sue teorie: c’è chi dice che il ruolo deve essere neutro: vesto i panni dell’avvocato ma poi quando torno a casa mi riapproprio del mio vero genere e della mia vita da donna (perché questo ragionamento non vale per infermiera o per sarta?); c’è chi parla di cacofonia, come nei casi di sindaca (Il sindaco è incinta, invece, non è cacofonico?), ministra e ingegnera (è naturale: tutto ciò che è nuovo suona sempre “strano” e “cacofonico”); e c’è pure chi sostiene che I problemi sono ben altri! Quest’ultima categoria, a dire il vero, è presente in ogni ambito e discussione.

La parità di genere passa anche dal linguaggio

Tornando ai “neutralisti”, perché, appunto, non adottano lo stesso ragionamento quando si parla di (la) cantante, psicologa, maestra o attrice? Non penso che definirebbero mai Meryl Streep un grande attore o Lady Gaga un ottimo cantante.

Quindi il ragionamento del io-uso-il-maschile-neutro-perché-è-solo-un-ruolo-temporaneo, lo vedete da voi, non regge. Il motivo in realtà è molto semplice, è solo un fatto di abitudine: il nostro orecchio non è abituato ad ascoltare queste nuove formazioni linguistiche.

Un’altra categoria da menzionare è quella dei provocatori-spiritosoni, che per irrobustire la loro tesi e ridicolizzare quella di chi è a favore dei femminili professionali, declina termini ambigenere come presidente, pediatra, elettricista e camionista in *presidenta, *pediatro, *elettricisto e *camionisto; in questo caso (sarebbe quasi superfluo dirlo, ma tant’è!) è sufficiente cambiare l’articolo.

Mi scusi lei, mi ama o no

Secondo questo bizzarro ragionamento, poi, non dovremmo neanche usare il pronome allocutivo Lei riferito a un lui, perché questo (o questa?) si usa anche per indicare la terza persona femminile singolare: Ma smettiamo di darci del Lui, diamoci pure del tu!

I femminili più inconsueti o “cacofonici”, come vengono più volte definiti dai detrattori dei femminili di professione, poi, non sono neanche così nuovi. Si pensi a Santa Rita da Cascia, per esempio, che per i devoti è sempre stata l’Avvocata dei casi impossibili e non di certo l’avvocato.

Meglio mettere in soffitta una volta per tutte il suffisso in -essa.

È un volo a planare, per esser ricordati qui

Oltre all’indelicato signora e signorina, che viene usato spesso con tono rimproverante e paternalista, per rimettere a posto chi ha osato ribattere a qualcosa (viene adoperato innocentemente solo dalle signore anziane all’interno di ospedali e farmacie per richiamare l’attenzione delle dottoresse), andrebbe evitata anche la formazione improvvisata di parole non presenti nell’uso (o non proprio stabilizzate) e sconsigliate categoricamente da tutti i linguisti, come vigilessa, filosofessa o avvocatessa.

Anche perché parole come presidentessa un tempo venivano usate per indicare la moglie del presidente, un titolo consolatorio che spettava alla moglie di, a una che viveva all’ombra di, che doveva stare sempre un passo indietro al, che faceva da grechina al, e che non aveva nessun ruolo istituzionale. E non solo, il suffisso in -essa si usava per marcare in negativo la presenza eccezionale di una figura femminile che faceva un lavoro (o che si permetteva di fare) che fino al suo arrivo veniva svolto solo dagli uomini. Era un’invasione di campo che doveva essere marchiata a fuoco e ridicolizzata da quella desinenza. Ecco perché si è sempre usato il maschile o siamo abituati al maschile, non perché questo sia più importante, ma perché semplicemente la presenza maschile è sempre stata numericamente – e di molto ‒ superiore.

Va fatto un ragionamento a parte per dottoressa, studentessa, professoressa o poetessa: sono termini storicizzati, entrati da tempo nell’uso, che abbiamo sempre usato così e che continueremo a utilizzare, visto che sarebbe impossibile (almeno in tempi brevi) cancellarli del tutto e sostituirli con i più validi: dottora, (la) studente, professora, (la) poeta.

Perché però bisognerebbe usare i femminili professionali?

La lingua, come ben sappiamo, non è un monolite (questa è la prima lezione che un professore dovrebbe fare a scuola, subito dopo le presentazioni: l’italiano è una lingua viva che cambia nel tempo e nello spazio) e se la società cambia, la lingua automaticamente si adatterà, con buona pace di tutti, dei “puristi”, dei detrattori e dei grammar nazi. E se l’altra metà del cielo, finalmente, si è fatta largo nel mondo del lavoro, è giusto oltre che naturale, usare dei termini che la identifichi chiaramente.