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Delitto di Cogne: quando Annamaria Franzoni divenne la mamma “più odiata d’Italia”

Pubblicato: 26/11/2020 14:43

Daniela, Daniela”. Sono le 8:28 della mattina del 30 gennaio 2002. La piccola cittadina di Cogne, precisamente nella frazione di Montroz, in Valle d’Aosta, viene risvegliata da una donna che urla il nome della vicina. La donna che urla è Annamaria Franzoni.

La donna che, invece, viene chiamata è Daniela Ferrod che, dopo aver accompagnato i figli alla fermata del pullman, si ritrova a fare i conti con una scena del tutto inaspettata. Annamaria le chiede di entrare in casa. Lei entra nella camera matrimoniale della signora Franzoni e del marito Stefano Lorenzi.  

Quello che vede è qualcosa di assurdo: c’è Samuele, il figlio di 3 anni della coppia, sdraiato supino sul letto. Indossa il pigiama, la testa e la faccia sono pieni di sangue. C’è sangue sulla parete dietro il letto e tra le lenzuola. Ci sono frammenti ossei anche sul cuscino. Samuele apre e chiude gli occhi, si lamenta flebilmente. 

Il delitto che ha sconvolto Cogne e tutta l’Italia

Da quel momento, il tempo sembra velocizzarsi. Vengono chiamati i soccorsi, che richiedono l’intervento dell’elicottero, per portare il piccolo velocemente all’Ospedale di Aosta. 

Nel frattempo, è arrivato anche Stefano Lorenzi, rientrato dal lavoro, dopo essere stato allertato. Urla, si accascia al suolo. Annamaria si avvicina e, a un certo punto, gli dice: “Ne facciamo un altro di figlio? Mi aiuti a farne un altro?”. 

Secondo diversi testimoni, la mamma di Samuele sembra fredda, controllataforse in stato di chock. Però, a uno dei presenti, dice per ben due volte: “Ma io me lo sentivo che sarebbe morto”.  

Alle 9:55, i medici dichiarano la morte di Samuele Lorenzi. Alle ore 16:00, casa Lorenzi viene posta sotto sigillo. 

Il racconto di Annamaria Franzoni

Annamaria Franzoni, fin da subito, dichiara la sua innocenza. Racconta che, quella mattina si è svegliata, dopo l’uscita del marito avvenuta attorno alle ore 7:30, ed è rimasta a letto con Davide -l’altro figlio- per un momento di coccole. Alle 8:00, sono poi andati al piano superiore per fare colazione. Poiché il pullman per la scuola sarebbe dovuto passare circa 5-10 minuti dopo, ritorna al piano inferiore, si cambia e prende l’abbigliamento per Davide, mentre Samuele dorme ancora. Poi, velocemente, ritorna al piano superiore, dove lava e veste il primogenito. Davide esce di casa.

Samuele, nel frattempo, si sveglia. La mamma lo trova nelle scale, così lo porta nella camera da letto matrimoniale, facendolo riaddormentare. Ritorna al piano superiore, accende la televisione per dare un conforto al piccolo. Poi, lei esce, chiudendo piano la porta. Così, accompagna Davide allo scuolabus

Ritorna a casa e ritrova al figlio in un lago di sangue. “Vomita sangue”, dice poco dopo al 118. Da quel momento, chiama la vicina Daniela per chiedere aiuto.

La sua versione dei fatti, tuttavia, verrà smentita poco dopo proprio dal piccolo Davide.

La ricostruzione del delitto di Cogne

Inizialmente, gli inquirenti pensano che l’omicidio sia stato commesso da una persona esterna. Si cercano le tracce, ma non si trovano. Quaranta giorni dopo il fatto, Annamaria Franzoni viene iscritta al registro degli indagati. 

Interviene anche il RIS di Parma, per effettuare le analisi sulla scena del crimine e, in particolare, l’analisi delle tracce di sangue. Vengono trovate tracce di sangue all’interno e all’esterno delle pantofole della donna. Il 14 marzo 2020, tre settimane dopo la consegna della relazione, Annamaria Franzoni viene arrestata.

La ricostruzione dei fatti viene piuttosto dibattuta nel corso del processo. Annamaria avrebbe preparato la colazione di Davide, mentre Samuele dormiva ancora. Prima di cambiarsi per portare il primogenito a scuola, ancora in pigiama, avrebbe presumibilmente inferto i colpi letali sul piccolo di 3 anni. Successivamente, si sarebbe cambiata, sarebbe uscita per l’appuntamento con lo scuolabus e sarebbe ritornata a casa.

Il processo 

Ripercorriamo le principali tappe del processo. Il 19 luglio 2004, la signora Franzoni, dopo aver scelto il rito abbreviato, viene condannata a 30 anni di reclusione.

Passano gli anni, passano i processi e si arriva alla Corte di Assise d’appello di Torino, che conferma la colpevolezza della donna. Grazie alle attenuanti generiche, la pena viene ridotta a 16 anni di carcere

Nel 2008, la Cassazione conferma la sentenza d’appello. Poiché quello che si stava svolgendo era un rito abbreviato, i giudici hanno considerato lo sconto della pena di un terzo, a cui sono stati tolti 3 anni per l’indulto. Di concreto, quindi, l’imputata è stata condannata con pena definitiva a 16 anni di reclusione. Dopo 6 anni e 11 mesi trascorsi in carcere, ha potuto usufruire degli arresti domiciliari, previsti per le madri che hanno figli minori di 11 anni di età. 

Dal settembre 2018, ha espiato la sua pena ed è una donna libera. Non ha mai confessato, ma ha sempre dichiarato la sua innocenza: vive con il marito ed i due figli lontano da Cogne.

Cosa è successo ad Annamaria Franzoni?

Per capire cosa sia successo quella mattina del 30 gennaio 2002 a Cogne e cosa abbia spinto una madre a uccidere il proprio figlio, bisogna fare un passo indietro e leggere quanto emerso dalla perizia definitiva. Tale perizia è stata eseguita dal prof. Franco Freilone, prof. Gaetano De Leo, prof Giovanni Battista Traverso e prof. Ivan Galliani.

Il collegio di periti psichiatri ha evidenziato la possibilità di uno stato di vizio parziale di mente. In altre parole, data la lucidità, l’assenza di elementi depressivi e persecutori, Annamaria Franzoni non ha subito un’alterazione della coscienza tale da poter escludere la sua capacità di intendere e di volere al momento del fatto.

Nella mente dell’imputata

Innanzitutto, nella loro relazione finale, i periti evidenziano la fragilità dell’imputata di Cogne, riportando il suo costante bisogno di approvazione e di attenzione da parte degli altri, nonché la sua dipendenza nei confronti della famiglia.

Questa personalità definita “immatura e dipendente” avrebbe portato la donna a sentirsi costantemente al centro della situazione e a soffrire di una mancanza di empatia. Come evidenziato, “non parla mai di dolore, non si chiede mai se il figlio possa aver sofferto, quanto possa aver sofferto“. Al contrario, le intercettazioni riferiscono come si preoccupi di quanto lei stessa stia male e stia soffrendo per la situazione.

La fragilità, l’immaturità e l’assenza di empatia portano a uno stato di ansia, espresso tramite malesseri fisici. Questa somatizzazione “sparisce” appena riesce a ottenere l’approvazione da parte del marito e dei familiari.

Ma, poi, i periti psichiatri parlano di un assetto di personalità isterico. Il prof. Franco Freilone descrive: “La scissione di due rappresentazioni che possono essere anche tra di loro contraddittorie, che coesistono e si alternano nello stesso tempo nella persona“. Ciò spiega perché chiama i soccorsi affermando: “Sta vomitando sangue” e subito dopo, alle persone giunte sul posto e ai vicini, dice: “È morto“.

Lo stato crepuscolare orientato

La situazione si complica, perché gli esperti parlano anche di stato crepuscolare orientato. Il termine indica una condizione momentanea che insorge improvvisamente e, sempre improvvisamente, finisce dopo qualche minuto o anche qualche giorno. Lo stato crepuscolare orientato fa sì che la persone riesca a mantenere la lucidità solo per alcune cose. Per il resto, è guidata da ciò che ha dentro.

Per di più, la persona può non avere ricordi di quello che è avvenuto durante lo stato crepuscolare. In alternativa, può ricordarsi qualcosa, che arriva alla coscienza tramite i lapsus. Si potrebbe, dunque, spiegare perché a volte dice che sia morto e altre che sia ancora vivo o anche l’episodio in cui aveva detto: “Cosa mi è succ… Cosa gli è successo?“.

Perché ha ucciso? Nessuno lo ha mai capito. Si ritiene che abbia agito in modo impulsivo a causa dei capricci di Samuele. Però, questo è un interrogativo a cui non sapremo mai dare una risposta certa.     

“Ma come può una madre uccidere il proprio figlio?”

Il delitto di Cogne sconvolge tanto perché è stato ucciso il figlio dalla sua mamma. Nell’immaginario collettivo, abbiamo sempre l’idea della madre che rinuncia al suo ruolo di donna e di persona, in modo da sacrificarsi per il bene dei figli. Credo che le parole dello psichiatra Vittorio Andreoli possano spiegare al meglio il nostro ideale. Durante un’intervista, lo psichiatra aveva dichiarato: “Cogne è un delitto contro la nostra cultura. Il vero eroe della famiglia italiana è la madre. Lei allatta il figlio, fa sacrifici, rinuncia a sé stessa. […] Da noi, c’è il mito della madre eroica”. 

Ed è per questo motivo che, ogni volta in cui si ricorda la tragica morte di Samuele, la prima cosa che viene in mente è: “Ma come può una madre uccidere il proprio figlio?”. Sebbene cerchiamo di repellere una simile immagine, gli infanticidi per mano della madri accadono e i dati statistici lo confermano. 

Tra overkilling, undoing e scena del crimine 

Attraverso le immagini diffuse e le varie ricostruzioni possono essere desunti alcuni elementi in più, perché la scena del crimine, che resta così immutata e cristallizzata al momento del fatto, è capace di urlare l’accaduto

Sul corpo di Samuele, si riscontrano due fenomeni, ben spiegati dal criminal profiling: l’overkilling e l’undoing. Con “overkilling” si intende il fatto che venga inflitta una violenza maggiore rispetto a quella necessaria per uccidere la vittima. Le (oltre) 17 coltellate e l’azione lesiva inflitta sulla volta cranica ne sono un chiaro esempio. 

L’undoing riguarda, invece, un chiaro indizio di stampo psicologico. Il termine indica infatti una modificazione della scena del crimine, effettuata dall’autore del reato come segno di rimorso e/o vergogna per quello che ha commesso. Lo fa perché vuole quasi nascondere e porre un rimedio all’omicidio. Nel caso del delitto di Cogne, l’undoing viene espresso nel momento in cui la vittima, dopo l’azione lesiva, viene coperta e nascosta dal piumone.

Già questi elementi, oltre al fatto che si sarebbe potuto presumere che l’omicidio fosse stato commesso da un offender disorganizzato, avrebbero potuto far propendere gli inquirenti verso l’ipotesi del delitto intrafamiliare.

Gli errori commessi a Cogne

Durante le indagini, tuttavia, sono stati commessi differenti errori. Sulla base del “la madre non può uccidere suo figlio”, gli inquirenti hanno dapprima seguito delle piste erronee, che hanno portato al coinvolgimento di persone del tutto innocenti, tra cui lo stesso Stefano Lorenzi. Proprio seguendo tali ipotesi, gli abiti indossati dalla signora Franzoni sono stati analizzati solo qualche mese dopo il delitto.

A ciò si aggiunge il fatto che Annamaria Franzoni, nel corso delle interviste e all’interno del suo libro, ha cambiato la versione dei fatti molteplici volte. Questo, di sicuro, non le ha portato giovamento. 

Infine, una questione rilevante riguarda il modo in cui è stato interrogato il piccolo Davide. La Carta di Noto è un importante documento, all’interno del quale sono indicate le linee guida internazionali per l’ascolto del minore in caso di abuso e di testimonianza. Tale documento prevede che i minori vengano ascoltati con il supporto di uno psicologo adeguatamente formato. L’intento è quello di evitare le domande suggestive, che potrebbero portare a una falsa testimonianza, e la formazione di falsi ricordi. Ecco: Davide Lorenzi non è stato ascoltato secondo quando previsto. Per di più, la sua testimonianza non è stata registrata, secondo quanto, invece, stabiliscono le linee guida.