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Il linguaggio dei pregiudizi

Pubblicato: 01/01/2021 08:57

Molte persone, se interrogate rispetto al tema dei pregiudizi, negano di averne. E, a livello conscio, sono più che certo che siano in buona fede. Ma mentono. Senza saperlo, ma mentono.

Il test delle associazioni implicite su Harvard lo testimonia: hai pregiudizi, spesso dove non ti aspetti di averne. Io stesso, che pure pensavo di esserne abbastanza libero, ho invece scoperto che non ne sono assolutamente esente.

I pregiudizi sono dappertutto, anche e soprattutto dove non ti aspetti. Uno dei modi per estirparli è estirpare le parole che li sottendono, perché togliendo al nostro vocabolario le parole e i modi di dire che sono alla base di un pensiero stereotipato è possibile cancellarlo. Con calma, ma è possibile.

Ho appena terminato di leggere il libro “Pregiudizi inconsapevoli”, di Francesca Vecchioni, si tratta di un libro, come è intuibile dal titolo, dedicato al mondo dei pregiudizi, una materia che mi affascina molto da sempre e alla quale dedico moltissima attenzione: fra euristiche e bias, il nostro cervello commette continuamente errori cognitivi e di valutazione e, soprattutto, ci porta a vivere in un mondo di pregiudizi. Di cui spesso siamo inconsapevoli.

Uno dei momenti più stimolanti del testo, è quello in cui l’autrice passa in rassegna un ampio frasario tipico di chi vive di pregiudizi, un frasario che dichiara, nel nostro cervello, la presenza di dogmi e stereotipi che condizionano il nostro vivere e il nostro rapportarci all’altro, al diverso da noi.

Da qui, un po’ di amaro in bocca: proprio io che ho scritto, qualche settimana fa, un articolo dedicato al pregiudizio di genere insito nel linguaggio genitoriale, proprio io che sono appena stato premiato come “Uomo Illuminato” dagli Stati Generali delle Donne proprio per il mio contributo al linguaggio in un’ottica di superamento delle differenze di genere, proprio io, insomma, mi sono reso conto che alcune di quelle frasi e di quelle parole, magari anche solo scherzosamente, le ho usate e le uso.

Una doccia fredda, lo confesso. Francesca, probabilmente, mi direbbe che ho peccato di uno dei bias di cui più spesso parlo e del quale conosco tutte le caratteristiche, ovvero “overconfidence bias”, che consiste nel ritenere che “tanto a noi non succederebbe mai”. Beh: mi è successo.

Parole ingannevoli

Quando dico che la conoscenza rende liberi, intendo proprio e anche questo: nel momento in cui io “conosco” le parole che dichiarano un pregiudizio, allora sono “libero” di pensare in modo diverso, di arricchire la mia visione del mondo, di integrarla con prospettive più ampie.

Se io so che frasi come “non ci sono più le mezze stagioni” o “i figli hanno bisogno di una mamma e di un papà” o “donna con le palle”, che di solito uomini e donne riservano a quelle donne che si contraddistinguono per particolari meriti che noi, sulla base appunto di un pregiudizio, attribuiamo all’uomo, se io so appunto che tutte queste frasi dichiarano pregiudizio, posso subito smettere di usarle. Diciamo a una donna che ha le palle per complimento, ed è una offesa.

Senza contare tutti gli stereotipi che riguardano “l’altro”, che si tratti di un altro religioso, geografico, culturale e chi più ne ha più ne metta. Sono ingannevoli anche tutte le frasi che iniziano con “non ho nulla contro di loro ma…” e di questo abbiamo spesso parlato citando il buon Lakoff e il suo principio “negare un frame lo rinforza”.

Aggiungo che il nostro linguaggio esprime il nostro mondo interiore e che quindi un “non sono contro” implica comunque una idea sopita, magari nemmeno troppo, che ha a che vedere con, appunto, l’essere contro.

Un bambino ancora non educato in tal senso (e forse, sarebbe il caso di dire, per questo “ben educato”) non si esprimerebbe mai in questo modo, proprio perché l’essere contro determinate categorie di persone è una acquisizione, una sorta di specializzazione emotiva che costruiamo passo dopo passo, parola dopo parola.

Ho sorriso, amaramente, leggendo che fra i vari tipi di fobie e -ismi c’è anche quello che riguarda l’età anagrafica. E ho ricordato che mio padre, quando ci portava in giro, faceva gli scongiuri ogni volta che vedeva al volante un uomo anziano con il cappello. Questa cosa, in apparenza innocente, mi è rimasta appiccicata addosso e anche io, ora, in questo momento, continuo a credere che incontrare un anziano che indossa un cappello mentre guida sia pericoloso.

Lo stesso discorso fatto a proposito del “non essere contro”, seppur speculare, si può fare parlando del “io sono a favore” oppure del “io ho amici gay/di colore/transessuali/immigrati/categoria a piacere”: che bisogno c’è di rinforzare una cosa che non dovrebbe nemmeno essere nominata, proprio perché normale e naturale?

Di recente, ho preso parte a un progetto contro la violenza di genere, un video musicale realizzato e performato dal gruppo kemama e, in una intervista che la sociologa cantautrice KettyPassa mi ha fatto, ho detto che mi auguro un mondo in cui non sia più necessario realizzare video del genere o parlare di cose simili.

Ecco, funziona allo stesso modo ogni volta che sentiamo il bisogno di sottolineare che abbiamo tanti amici gay/neri/categoria a piacere o che noi siamo evoluti perché lavoriamo con donne/uomini/etero/gay/immigrati/categoria a piacere. Come mai sentiamo di doverlo rimarcare? Dal punto di vista linguistico, è interessante: tanto più tendiamo a giustificare i nostri comportamenti, tanto più ce ne sentiamo in qualche modo coinvolti e, ancora una volta, viene almeno da chiedersi il perché. 

Weak opinions

La nostra realtà è il frutto delle parole che utilizziamo per raccontarla e per descriverla. Per questo, dobbiamo renderci conto che ci sono parole che utilizziamo in modo consapevole e che certamente possiamo modificare e che ci sono parole che utilizziamo in modo inconsapevole e che certamente dobbiamo modificare, perché il loro potere è ancora più forte di quello che hanno le parole che diciamo.

Il motivo è semplice: le parole “nascoste” nel nostro cervello formano “opinioni nascoste” (weak opinions) le quali condizionano i nostri comportamenti.

Se io non so, ad esempio, che la questione del “vecchio con il cappello” è uno stereotipo che non ha alcun valore e nessun riscontro con la verità dei fatti, sarò portato a giudicare una persona anziana sulla base di questo stereotipo e quindi a comportarmi nei suoi confronti in un modo o nell’altro.

Persino la battuta (cito ancora una volta la Vecchioni) “i cinquanta sono i nuovi trenta” è uno stereotipo privo di qualsiasi valore: a cinquant’anni si può essere dei perfetti idioti (e ho giusto in mente almeno un paio di profili di personaggi brizzolati che trascorrono la vita facendo balletti di dubbia utilità la cui età anagrafica pare non corrispondere all’età neurologica) e a 23 anni si può essere Presidente di un istituto di Ricerca sulle interazioni umane, come è di fatto Michele Grotto, mio braccio destro. 

Se io non so, ad esempio, che pronunciare in casa la frase “quella è proprio una donna con le palle” è il seme di un atteggiamento che si tradurrà, nel caso mi stia ascoltando un figlio maschio, nella convinzione che l’uomo sia più bravo e più forte e più determinato della donna oppure, nel caso in cui mi stia ascoltando una figlia femmina, nella convinzione che per avere successo si debba rinunciare a qualità femminili e privilegiare qualità supposte maschili e che in realtà sono assolutamente trasversali. 

A volte, meglio tacere

Una delle cose che faccio, per passione e per mestiere, e che (dicono) mi riesca particolarmente bene, è “cambiare le parole”, trasformare espressioni poco utili in espressioni che producano risultati vantaggiosi per chi le usa. Cambio la realtà attraverso il cambiamento del linguaggio che la descrive.

In certi casi, tuttavia, credo che non sia una questione di cambiare le parole ma di tacerle proprio. Wittengstein, che diceva “o di una cosa posso parlare bene o è meglio tacerne” approverebbe: non c’è una sostituzione virtuosa di “donna con le palle” (o meglio, ci potrebbe essere ma torneremmo al punto di partenza, ovvero attribuire qualità maschili a una donna, ma con parole diverse, e il giochino non funziona rispetto a quello di cui stiamo parlando qui): se una donna è brava, determinata, intelligente, grintosa e così via, non ci sono e non ci dovrebbero essere perifrasi maschili per definirla. Con le palle? Cazzuta? Con i contro cazzi? Basta dire che è brava, determinata, intelligente e così via. Qualità che non hanno e non dovrebbero avere sesso. Senza aggiungere altro. Senza dover rimarcare verità che non hanno bisogno di essere rimarcate. A volte, insomma, dire meno significa dire molto, molto di più.

Ultimo Aggiornamento: 14/01/2022 10:59