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L’importanza del femminismo: quando diventa estremo e non fa bene alle donne

Pubblicato: 07/05/2021 08:37

Libri sul femminismo ne ho letti parecchi. Libri sul linguaggio di genere, pure. Libri sugli stereotipi, anche. Tanti lavori importanti, utili, doverosi.

Ho scritto articoli, ho tenuto conferenze, quotidianamente mi batto perché le disparità di genere scompaiano grazie anche alla trasformazione del linguaggio che utilizziamo. Insomma, il tema mi è caro. Sono stato persino nominato “uomo illuminato” dagli Stati generali delle donne. Ed è per questo che il libro di Michela Murgia ha meritato una prima disanima e ora pure una seconda: condivido ogni idea di cui lei si fa promotrice riguardo alla necessità di liberarci del sessismo e delle orribili abitudini ad esso collegate. Al tempo stesso, è così ricco di sciocchezze e di idee imbarazzanti che rischia di nuocere, e gravemente, alla causa che vorrebbe sostenere.

Le teorie di Murgia (sto bene attento a evitare “La Murgia”, sennò divento sessista e anzi sarò inflessibile d’ora in poi con chiunque mi chiami “il Borza”, perché gli articoli sono sessisti pure loro), pur naturalmente condivisibili per quanto concerne il principio di cui intendono farsi portatrici, sono per lo più sbagliate. Tecnicamente sbagliate. Nulla a che vedere con l’ideologia, parlo proprio di sbaglio dal punto di vista sostanziale, cognitivo e comportamentale.  

Polemiche che vendono tanto, ma che poco giovano al femminismo

Prima di passare all’analisi degli errori di concetto che Murgia ci vuol passare come idee che possono cambiare il mondo, segnalo anche in questo articolo una serie di generalizzazioni che non solo non rappresentano la realtà nelle sue molteplici sfaccettature come sarebbe doveroso fare, ma sono anche decisamente offensive per una gran fetta di persone, me compreso.

Ad esempio (potete trovarne altre in questo editoriale), lei dice: “pare che una donna che occupa una posizione sociale prestigiosa, per gli italiani rimanga un evento talmente alieno da scatenare all’istante il bisogno di ricondurla a un ambito di familiarità”.

Quali italiani, Michela Murgia? Non conosco una persona, una, che si possa sentire rappresentata da questo quadro assolutamente ingiusto che lei disegna. Ce ne saranno a bizzeffe, non ne dubito. Quello su cui nutro dubbi è, dal punto di vista cognitivo comportamentale, pensare di scalzare uno stereotipo… con un altro stereotipo. Io, come sempre su queste pagine, mi guardo bene dal commentare il contenuto: so bene che le posizioni della Murgia (ho usato la preposizione articolata sessista, me ne dolgo ma è stato un impulso ancestrale) hanno più di una ragione di esistere… dico solo che sono espresse proprio male e dichiarano una cecità che una scrittrice del suo calibro (dicono che scriva bene e certamente vende molto) potrebbe evitare. Che cosa le costava aggiungere “una buona parte” a “italiani”? Sarebbe stato intellettualmente più onesto, a meno di voler usare la causa del femminismo per innescare inutili polemiche, che poco giovano al femminismo e molto giovano alla vendita di copie. 

Tutti gli italiani hanno lo stesso problema

Di queste generalizzazioni il libro è pieno: a sentir l’autrice, tutti gli italiani hanno lo stesso problema con il femminismo (a parte un ragazzo che le scrive e pochi amici eletti). E questo non è e non può essere vero ed è pure offensivo da scrivere, a meno lo scopo del tutto sia solo quello di accender polemiche e vendere libri. 

Sa molto di polemica gratuita, ad esempio, la questione delle banconote. Michela Murgia parla della banconota che raffigura Maria Montessori e, nel retro, due bambini che studiano. La tesi, allucinante, dell’autrice del libro è che questa raffigurazione del bambino sta “a significare che lei era lì per aver portato ai massimi livelli l’unica eccellenza che un sistema patriarcale può riconoscere alle donne: l’educazione infantile, in una narrazione delle donne come creature ontologicamente materne”. Iddio.

Maria Montessori è nota, a livello planetario, per le sue ricerche nel campo dell’infanzia ed è conosciuta nel mondo (nel mondo!) per il suo metodo educativo che prende il suo nome, adottato in migliaia di scuole per l’infanzia, elementari e medie. In qualsiasi parte del mondo, se dici “Montessori” ti rispondono “metodo educativo, scuola, bambini”. Che cosa avrebbero dovuto raffigurare nel retro della banconota a lei dedicata? Un trapano?

Io, lo ripeto, sono d’accordo con la tesi di Michela Murgia, sia per quel che riguarda l’esistenza delle disparità di cui parla sia per il quel che riguarda l’idea che tali idee siano purtroppo veicolate ogni giorno da un linguaggio sessista che va debellato. È una delle mie missioni personali, fra l’altro. Ma questo è troppo, ed è ridicolo. E il guaio è che se una voce importante della scena italiana se ne esce con porcherie di questo tipo, il danno lo patiranno quelle donne il cui valore andrebbe promosso e la causa femminista in genere, perché uscite del genere coprono di ridicolo tutto quello che c’è di buono in questa idea.

Uomini e donne sono diversi, biologicamente

Che cosa deve fare una donna, allora, di grazia, per incarnare l’ideale di Michela Murgia? Di certo non può essere femminile, parola da bandire assolutamente perché, secondo la tesi dell’autrice, è la massima espressione del patriarcato e di un machismo che proprio non si può accettare. Io confesso di aver usato spesso quest’aggettivo, non sapendo che per lei è chiaro segnale di sessismo latente. Dire a una donna che si apprezza il suo tocco femminile, proprio non si può. Osceno. Imbarazzante. Michela Murgia, in una tanto lunga quanto inutile filippica (non dico irosa, perché irosa sarebbe, secondo lei, sessista, anche se io uso quel termine anche in riferimento agli uomini, ma lasciamo correre), si scaglia contro questa aggettivazione, dimenticandosi pare del fatto che fra uomo e donna esistono differenze biologiche che nemmeno lei con le sue battaglie (in realtà, non potrei nemmeno scrivere “battaglie”, perché usare la metafora guerra per riferirsi a una donna è sessista). Si tratta di differenze ormonali, chimiche, cerebrali.

Il fatto che il corpo calloso che divide i due emisferi cerebrali sia nelle donne più ricco di passaggio di fibre, che permettono un maggior scambio di informazioni fra emisfero destro e sinistro e porta la maggior parte delle donne ad avere una più profonda integrazione fra intelligenza “razionale” ed intelligenza “emozionale”, è un dato, scientificamente dimostrato. Il fatto che questa differenza biologica si traduca spesso nella capacità di una donna di avere un punto di vista più “emotivo” e meno “razionale” di un uomo è un altro dato, scientificamente dimostrato.

Sto pensando che la prossima volta che vorrò complimentarmi per il tocco femminile di una mia collega in un progetto, le dirò: “apprezzo moltissimo che il più significativo spessore del tuo corpo calloso abbia permesso un più congruo scambio di informazioni fra i tuoi due emisferi cerebrali, che si è tradotto in una capacità espressiva meno dettata da rigide logiche tipiche dell’emisfero sinistro e più mitigata dalle capacità emotive del tuo emisfero destro”. Sono certo che apprezzerà, e ringrazierà.

Niente femminilità, troppo maschilista

Quindi, niente femminilità, guai al cielo. E la donna, secondo Michela Murgia, non può nemmeno rivestire posizioni di potere, perché se le riveste è, cito, complice del sistema patriarcale e, cito, “cane da guardia” del potere maschile. Femminile no, al vertice di una organizzazione no, conduttrice no (vedasi articolo precedente), velina no e nemmeno mamma, che dire “mamma” è davvero troppo offensivo e troppo machista e troppo maschilista e troppo sessista.

Per Michela Murgia è un vero e proprio oltraggio dire che una tizia che fa una scoperta è “mamma” di quella scoperta. Troppo machista. Troppo patriarcato style. Ed è pure un oltraggio utilizzare la metafora “famiglia” per descrivere organizzazioni in cui la donna lavora.

Peccato che, Murgia si leggesse o rileggesse Lakoff, le metafore che evocano il frame “famiglia” sono universali e alla base di importanti conseguenze concettuali. E poi, se la tizia è madre di quel progetto, c’è sempre il tizio che è il padre di quell’altro progetto. Quante volte ho descritto Lakoff come il padre del lavoro sulle metafore cognitive? È sessista pure questo o è una carenza di conoscenza che nuoce a una delle più nobili cause per le quali vale la pena lottare? 

Ps. Lo giuro su tutto quello che ho di più caro: in questo istante, mentre sto chiudendo il pezzo, la donna dietro di me ha appena detto, al telefono: “ma vuoi star zitto? Ma mi lasci parlare? Ma vuoi startene zitto?”. Così, per dire. 

Ultimo Aggiornamento: 14/01/2022 10:57