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Il diritto all’identità: “Sentivano solo di non essere felici”, storia di Camilla e di un Paese che abbandona

Pubblicato: 21/01/2022 08:52

Vi è mai capitato di essere in imbarazzo per non sapere bene un’altra lingua? Ma al contempo avere tanta voglia di impararla?

Ci sono studi sociologici e neurologici molto importanti che dimostrano che le parole che usiamo plasmano i nostri pensieri. Questo è uno dei motivi per cui quando impariamo una lingua nuova finiamo poi col pensare e sognare in quella lingua. Diventa parte di noi.

C’è una lingua, a mio avviso, più importante di tutte le altre. Un lingua che è capace di farci sentire più liberi e uguali agli altri. C’è una lingua nella quale la parola normale e la parola diverso si svuotano di significato. 

Identità di genere e genere grammaticale, una lingua che non cambia e i pensieri che purtroppo restano

C’è stato un libro che mi ha fatto sentire in imbarazzo, perché mi ha sbattuto in faccia i confini che a volte ancora ho.
C’è stata una persona che mi ha raccontato il suo percorso e che mi ha mostrato quanto lunga è ancora la strada, anche per chi pensa di essere già nel mezzo del cammin di nostra vita.
Questa persona è Camilla Vivian e il libro è “Mio figlio in rosa” (Manni Editori). 

Una delle prime cose che mi dice Camilla e che molto è cambiato da quando 6 anni fa ha scritto quel libro.

Ma di tempo ne è passato molto meno (era settembre) da quando L’Accademia della Crusca si è espressa sulla questione identità di genere e genere grammaticale

È senz’altro giusto quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico. Ma non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale.” 

«Il linguaggio non è una cosa statica. Se fosse così metterei, per esempio, tutti questi della Crusca a parlare in fiorentino volgare, ma è chiaro che il linguaggio si evolve col tempo. Sono d’accordo col fatto che non dobbiamo pretendere di forzare la lingua al servizio di un’ideologia. Ma qui non si parla di nessuna ideologia, non esiste una ideologia gender» replica Camilla.

La nostra lingua è binaria e si regge su una generalizzazione maschile, e da qui si apre anche tutta la questione del maschilismo nella nostra società. Come si fa, dunque, a cambiare una lingua nazionale e quindi anche il conseguente pensiero nazionale?

«Non siamo l’unica lingua binaria. Io abito in Spagna da 4 anni e anche lo spagnolo è binario, lì utilizzano la e. Non c’è stata nessuna discussione, nessuna ribellione, nessun grido “Oddio la tradizione!”. 
Hanno semplicemente preso atto che c’era stato fino a quel momento un errore e quindi un’invisibilizzazione di una questione e l’hanno applicata senza nessuna discussione. E si trova ovunque, anche in una banale chat di classe la maggior parte delle persone usa la e, oppure mette la @ al posto di dove noi mettiamo l’asterisco. 
Non è che c’è stata una regola “Da oggi si fa così”, semplicemente cercano di essere inclusivi. 
Mi sono resa conto di quanto sia essenziale questa cosa, anche per me prima il maschile universale era una cosa che davo per scontato, non ci avevo mai riflettuto perché in realtà noi non riflettiamo su tante cose».

“Perché in Italia le bambine non esistono?”

«Ti racconto questa storia: qualche anno dopo il trasferimento in Spagna, siamo tornati a Firenze e i miei figli sono andati a passare una giornata nella loro vecchia scuola, poi dopo un po’ di tempo mio figlio più piccolo, faceva la terza elementare, mi ha detto: “Mamma, ma perché in Italia le bambine non esistono?”, gli chiedo in che senso e lui mi dice: “Ti ricordi il giorno che sono stato a scuola tutto il giorno nella mia vecchia classe? Non c’è stata mai una volta che le maestre abbiano detto bambini e bambine”; gli ho spiegato che in Italia si usa il maschile universale, che include sia i maschi sia le femmine, ma lui: “Ma no! Se ci sono i bambini e ci sono le bambine, bisogna dire bambini e bambine, perché altrimenti le bambine è come se non esistessero”. E lì mi sono resa conto quanto manca ancora per arrivare ad un cambiamento.

Bisogna partire dall’educazione e dalla scuola per abituare le persone a un linguaggio diverso, in modo tale che nel momento in cui usi il maschile universale, ti suona strano e capisci che non è corretto. 

Penso che il lavoro da fare in Italia sia molto più profondo dell’inserire qualcosa in un dizionario. Noi magari facciamo anche le leggi, che però poi non applichiamo. Quindi che senso ha farle? Che senso hanno le unioni civili, quando poi non istruisci e non educhi le persone al rispetto a tutti i tipi di famiglia?»

Cosa vuol dire vivere in dittatura e non avere libertà

In Italia sul blocco del ddl Zan in Parlamento c’è stato addirittura un applauso, e lì capisci che siamo in un Paese imbarazzante sotto certi punti di vista.
Nell’immaginario su tante cose Italia e Spagna sono molto simili, ma poi a ben vedere sono molto diverse sulle questioni diritti, gender e linguaggio, da cosa dipende per tua esperienza?

«L’idea che mi sono fatta è che loro si ricordano meglio cosa voglia dire restare sotto una dittatura, mentre noi ce lo siamo dimenticati. Sanno meglio, anche le persone più anziane, cosa vuol dire non avere la libertà. Franco c’è stato fino alla fine degli anni ’70. E poi loro hanno avuto anche molta più contaminazione di popoli dal Centro e Sud America e da altri continenti. Questo li ha fatti abituare al fatto di essere culture diverse, popoli diversi, che dovevano convivere e rispettarsi, mentre noi siamo ancora a dirci che noi siamo noi e gli altri sono altri. Noi siamo la bella penisola in mezzo al Mediterraneo, che non confina con nessuno, ci facciamo grandi perché abbiamo avuto l’Impero Romano e il Rinascimento e campiamo di rendita su quello, perché tanto il turismo ce l’abbiamo lo stesso, le persone vengono e ci portano i soldi lo stesso, l’Italia viene considerata nel mondo anche per la moda e per il cibo e pensiamo che non serve fare uno sforzo in più per includere tutti.

In Spagna hanno un sistema educativo molto meno intenso a livello didattico, noi magari siamo più colti, però loro hanno un approccio per il quale la scuola dell’obbligo deve renderti una persona con una cultura base, ma che ha lo scopo di farti capire il mondo e insegnarti a rispettare le altre persone.

Io mi ricordo nel 2019 sul caso di Sea Watch e della capitana tedesca Carola Rackete, io ero ancora in una chat di classe italiana e le discussioni erano ‘che palle questi immigrati’, invece in quelle spagnole erano più simili a ‘conoscete qualche infermiere che può andare al porto a dare supporto se la nave verrà qui?’»

Fare la femminuccia e fare il maschiaccio 

«Io penso che rispetto a tutta la questione Lgbtq+ se ci fosse veramente un appoggio da parte di qualcuno ci si alzerebbe in piedi per fare qualcosa, ma non lo fa nessuno, né politici, né medici».

Camilla mi racconta di aver letto un articolo della società italiana di pediatria con cose che negli altri Paesi si leggevano almeno 10 anni fa e che secondo lei è molto più una parvenza quella di essere a favore dell’affermazione del proprio genere, quasi una cosa che si deve dire, ma verso la quale poi nessuno fa nulla per un cambiamento culturale e di educazione, forse proprio perché si ha paura di perdere dei privilegi acquisiti, o addirittura di perdere il lavoro o di subire mobbing. Soprattutto se si pensa alle persone transgender.

Io scrivo spesso di discriminazione e della disparità dal punto di vista delle donne. Leggendo il tuo libro ho espanso il mio sguardo. Tu racconti che nessuno si è mai stranito al comportamento “da maschiaccio” di tua figlia maggiore, invece con Fede (oggi Lori) che aveva gusti femminili è successo esattamente l’opposto. Ma c’è una grande differenza fra la concessione di essere un maschiaccio e la libertà di avere un’identità di genere atipica o la libertà di non identificarsi in un genere:

«Il problema con il mio libro è che faccio a volte fatica a rileggerlo perché 6 anni fa anche io usavo delle parole sbagliate, oggi penso ‘atipica rispetto a cosa?’
Vado per step. Ad esempio, quando sono arrivata in Spagna ero felice perché ai semafori pedonali c’è l’omino e la donnina. Che figata! Pensavo. Adesso invece mi chiedo ‘perché quella deve essere una femmina? Perché c’è una gonna?’. 
Adesso si usa ‘genere creativo’ a me verrebbe da dire semplicemente identità di genere, perché bisogna specificare? 

Bisogna abituare le persone a fare lo sforzo di andare al di là di quello che appare, perché ci può essere una persona che magari all’apparenza sembra rientrare nell’idea che abbiamo, per esempio, della donna, però magari quella persona può sentirsi non binaria. Dobbiamo fare tutti uno sforzo per fare una riflessione in più.

È la stessa cosa che è successa a me quando mio figlio mi ha fatto quel discorso sui bambini e le bambine in Italia, io non ci avrei fatto caso. Noi diamo per scontato tutto quello che da noi è così, per quello, secondo me, dovremmo invece contaminarci di più con le altre culture, con gli altri Paesi, viaggiare, conoscere».

Aiuto, ho un figlio transgender

Racconto a Camilla parte del mio percorso iniziato in un mondo binario nel quale io chiamavo me stessa al maschile, io ero un cameraman, un giornalista, un direttore, ma anche una studiosa e una fotografa. Di come spesso sottovalutiamo, almeno questo è quello che è successo a me, il genere grammaticale e di come è naturale per questa società ancora oggi attribuire un articolo femminile a professioni tradizionalmente anche femminili come operaia, infermiera, sarta e di come invece si usa più facilmente il maschile, anche per identificare una donna, per professioni di alto livello economico, di indipendenza e di potere. E poi le racconto che oggi mi definisco una direttrice e una direttora (che i correttori automatici mi segnalano ancora come errore). 
Nel suo libro e nel suo blog è palese la differenza di ragionamento tra bambini e bambine e gli adulti, i primi due non hanno etichette, non ne hanno bisogno, sono liberi.

Se arrivasse oggi una famiglia con un figlio o una figlia transgender, di identità fluida o non binaria, tu consiglieresti ancora, come hai raccontato nel libro, di separare un dentro e un fuori casa?

«Mi capita continuamente di ricevere richieste d’aiuto. Noi abbiamo due compiti paralleli, uno è cercare di seminare per cambiare la società e l’altro è quello di parare i colpi della società nella quale stiamo crescendo un figlio o una figlia. Io cerco sempre di capire il contesto familiare, ci sono tante variabili da tenere in considerazione.

A me dispiace non aver capito prima e se tornassi indietro spiegherei meglio a mia figlia che lì fuori è quello che è, ma non correggerei più gli altri, come ho fatto quando le dicevano ‘che bella bambina’ e ogni volta io dicevo ‘No, è un maschio’. Adesso quando ci ripenso dico ‘Poverina! Chissà come si sarà sentita ad essere sempre riportata da sua madre in una cosa che in realtà non sentiva di essere’.

La cosa che ho riscontrato tantissimo nelle persone transgender è il fatto di non saper dare un nome al loro sentire che non aveva nessun riscontro nella società, per cui pensavano di essere una sorta di alieni, non si sapevano neanche nominare, non sapevano cosa sentivano, non sapevano che dovevano essere quelle persone lì, in realtà sentivano di non essere felici e questo penso che debba essere una cosa tremenda. 

Quello che io consiglio adesso quando mi chiama qualcuno è di essere assolutamente sinceri e sincere, di mettere di fronte i propri figli e figlie alle difficoltà che ci sono fuori e di fornire gli strumenti per essere abbastanza consapevoli del fatto che il problema ce l’hanno le altre persone e che potrà capitare lo stronzo o la stronza, però è l’altra persona che ha un problema e non lui o lei. Mia figlia, per esempio, sapeva distinguere molto bene dove le andava di vestirsi in un modo e quando non voleva rotture di scatole. Quando viaggiavamo molto spesso le dicevo: ‘Senti, visto che dobbiamo passare la dogana, ti va di essere un po’ più unisex?’».

Nel libro Camilla spiega molto bene il problema della dogana e di come sia difficile per una persona avere i documenti da maschio, ma essere femmina.

I bambini li fanno solo i maschi e le femmine

Cosa risponderesti a una persona che ti parla del concetto di normalità e ti dice che la progressione della specie la fanno solamente gli uomini e le donne?

«Risponderei che in natura ci sono un sacco di specie di animali che si sono comunque organizzati.
Per esempio i cigni neri vivono molto spesso in coppia omosessuale e quando si vogliono riprodurre si fanno regalare un uovo dalla cigna. Quindi se ci riescono i cigni, possiamo farcela anche noi!
Ci sono molti animali che non hanno identità di genere o la cambiano, ad esempio il pesce pagliaccio nasce senza un genere, poi dopo sceglie.
Quindi, questa cosa della normalità o del contro natura non è vera. Viene considerato normale quello che è semplicemente più comune».

Nel libro scrivi più volte che sei stanca. Sono passati sei anni, sei ancora stanca?

«Non so se adesso sono più stanca o stufa. 
Sono meno stanca di prima perché mi sono trasferita in un Paese nel quale c’è meno pressione e ho capito per la prima volta il concetto di madrepatria: il fatto che la patria possa essere una sorta di madre che protegge. Io qui so che c’è uno Stato che mi protegge, che una legge che viene rispettata e se succede qualcosa a scuola con i miei figli, la scuola si assume istantaneamente la responsabilità e risolve il problema. Qui non mi sento più da sola contro tutti e questo ti cambia la vita.

Qui una persona transfobica si sente in colpa e sta zitta, perché vedi una città che è bombardata di segnali che bisogna essere inclusivi che esistono persone di tutti i tipi, di tutti i generi e se tu la pensi diversamente stai zitto, perché ci fai una figuraccia. Mentre da noi è esattamente il contrario: sta zitta la persona».

Camilla mi racconta che fino all’anno scorso Lori, sua figlia, andava in una scuola nella quale il direttore si è sposato con il suo compagno e si interroga su cosa sarebbe successo da noi, se ancora si parla del ddl Zan nel modo in cui abbiamo tristemente assistito tutti in Italia: «Chissà cosa succede se i nostri figli hanno un maestro di un’identità di genere diversa da quella binaria!!!».

Mi spiega meglio come funziona l’educazione scolastica in Spagna e mi racconta di quanti progetti sono portati avanti nelle scuole, anche in collaborazione con la polizia, su tematiche importanti come la violenza sulle donne. Hanno leggi specifiche per la violenza di genere che vietano anche di dire parolacce ad una donna, che sia sorella, fidanzata, amica o madre, non importa. E i maschi bonariamente insorgono perché loro possono venire presi ad epiteti, ma la risposta è che oggi prevale la violenza contro le donne e finché verranno ammazzate, allora le leggi devono proteggerle di più. 

«Questo bombardamento continuo è fatto in maniera piacevole, ho imparato un sacco di cose aiutando i miei figli sui progetti scolastici sulle donne che hanno fatto la storia. È una scuola che ti educa e che ti cambia.

Per esempio, la carriera alias tanto discussa in Italia, in Spagna non la devi neanche chiedere, va in automatico, e non solo ti cambiano il nome, ti cambiano anche il genere, per Lori ad esempio è tutto al femminile e di lei penso lo sappiano il direttore della scuola e il responsabile di convivenza che è una figura che nelle scuole spagnole si occupa di monitorare che vada tutto bene, di mediazione, di fare corsi su tematiche importanti. In tutto due o tre persone, poi sarà Lori a decidere se dirlo agli altri.

In Italia è diverso, le riunioni con le famiglie, gli altri devono approvare, cosa diranno i professori, cosa diranno i compagni, ma la privacy della persona? Praticamente prima viene la protezione di tutti quelli intorno, ma a partire dalla famiglia che si preoccupa prima di cosa penseranno i nonni piuttosto che del figlio o della figlia che poi magari si impicca in camera da letto.

Però, nonostante tutto quello che è successo sul ddl Zan, io credo che le cose stiano cambiando, tutte le cose false e ingiuste dette durante la discussione sul ddl Zan, hanno per lo meno fatto arrivare il concetto che esiste l’identità di genere».

Un popolo sfinito è un popolo distratto

La percezione che ho io è che la società stia cambiando più velocemente della politica, come spesso è avvenuto in Italia, pensa alle unioni civili, all’aborto, e ad altre tematiche sociali molto importanti. La politica si ritroverà, mi auguro il prima possibile, stretta dalla pressione sociale:

«Certo, ma perché da noi sono tutti i vecchi, quasi tutti i politici e i professori e non c’è un ricambio generazionale.

E poi in Italia ci si stanca di più, perché tutto ti crea un problema, da dover andare a pagare un bollettino alla posta, alla bolletta della luce che non capisco perché qui a Firenze arrivano da €250 e in Spagna, stesse persone e stessa tipologia di casa pago 30 euro. E sono tante piccole cose che tutte insieme ti stancano e capisco che se parli dello schwa ad una popolazione sfinita ti manda a quel paese, perché pensa a pagare la bolletta e ha ragione e secondo me questa è una tecnica per tenerci talmente sfiniti che non riusciamo a ribellarci».

Hai ragione, molto spesso nei commenti che ci scrivono i lettori e le lettrici sotto i nostri articoli, soprattutto quelli inerenti al ddl Zan, sono proprio di questa natura: ’Ma sono questi i problemi dell’Italia?’,  ‘Io ho perso il lavoro’, ‘Non hanno nulla di più urgente da fare?’. Sembra un popolo sopito e indaffarato alla sopravvivenza che non riesce a dedicare i pensieri e le azioni a un cambio di paradigma educazionale.

«Perché le persone non capiscono che la questione non è il DDL Zan, la questione è molto prima, è alla base del rispetto della persona. Purtroppo quando la persona corrisponde a quello che la società si aspetta va incontro a meno difficoltà, è come se ti mettessero su un binario e vai avanti in automatico, senza neppure riflettere. Ad esempio, quando mio figlio si è rotto la gamba e dovevamo muoverci con sedia a rotelle per Firenze ho incominciato a pensare alle barriere architettoniche. Qualche giorno fa ero in centro a Firenze con amici e tornando a casa, dopo otto ore, ho chiesto quante persone in sedia a rotelle avessimo visto: nessuna. In Spagna incontri in continuazione persone in sedia a rotelle, ma non perché lì ce ne sono di più, perché lì possono uscire.
Per cui la questione non riguarda solo noi che ci occupiamo di identità di genere, ma appena hai bisogno di un diritto, non ce l’hai. Bisogna proprio cambiare». 

I privilegi inconsapevoli e la necessità di disturbare

«Sto seguendo un corso della Denver University e si chiama “Queering the school” e parte dal concetto di privilegio, inteso come, per esempio, il privilegio di essere una persona bianca, o eterosessuale, o con un lavoro, ma anche di essere una persona che può camminare, che può vedere, che può avere figli. 

Insomma finché non ci concentriamo su queste cose, non possiamo riuscire a capire cosa voglia dire non avere certe cose. Solo che la voglia di capire e di cambiare può non esserci quando tutto il tempo è assorbito nella sopravvivenza, come dicevamo prima». 

Purtroppo la questione è che viene sensibilizzato chi è entrato in conflitto con un diritto negato.
Io e Camilla continuiamo il confronto sul bisogno di disturbare, perché spesso i singoli individui vogliono solo vivere in pace, senza troppi scossoni e la società, che non vuole essere disturbata nella sua propaganda di una dottrina ottusa e schiava, etichetta quella cosa che crea scompiglio negli equilibri come disturbata. Approfittandosi così della svogliatezza della gente che non sa neppure cosa sia l’identità di genere e che quindi trova più comodo credere al primo che sostiene quello che già pensa di sapere, senza nessuna richiesta di sforzo cognitivo, né emotivo e soprattutto senza nessuna intenzione di farsi domande. E l’indottrinamento è servito!