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I 101 franchi tiratori che affossarono Prodi: i veleni e tradimenti dietro la mancata elezione

Pubblicato: 28/01/2022 17:20

L’elezione del presidente della Repubblica in Italia è sempre stato un momento particolare, determinata dalle migliori e dalle peggiori caratteristiche della politica. Incontri notturni, sussurri nei corridoi, accordi sottobanco… I nemici di sempre che si scoprono vicinissimi e i più fidati alleati guardati con sospetto nella corsa per il Quirinale. Esemplare di questo momento così scivoloso è stata la mancata elezione di Romano Prodi nel 2013, con la vicenda degli ormai infaustamente noti 101 franchi tiratori. Un periodo di profonda crisi della Repubblica che ha lasciato le sue cicatrici, con ripercussioni a cui assistiamo ancora oggi.

Prodi, i 101 franchi tiratori e la strada irta di pericoli per il Quirinale

Con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica che succede a Sergio Mattarella, viene spontaneo guardare al passato per tentare di dare una chiave di lettura al presente. I riti e le trattative che dalla nascita della Repubblica si accompagnano all’incoronazione del nuovo inquilino del Colle procedono secondo un copione che vede i protagonisti della politica impegnati incessantemente, tastando il terreno come accorti alpinisti.

Questo perché non c’è momento più denso di veleni e tradimenti che quello precedente all’elezione di un nuovo capo di Stato, che determina lo scenario futuro, per almeno 7 anni, della politica italiana. Lo ha insegnato bene il caso di Romano Prodi e dei 101 franchi tiratori, evento ormai considerato alla stregua di un racconto esopico per educare sui rischi che incorre chi si cimenta nella scalata del Colle.

Il contesto: le elezioni politiche del 2013 la tempesta perfetta

Lo sfondo lo fanno le drammatiche elezioni politiche del 2013, momento di cesura del panorama politico italiano. Arriva primo senza vincere il Partito Democratico di Pierluigi Bersani, che ha espugnato le primarie pochi mesi prima sconfiggendo l’astro nascente Matteo Renzi. Non solo la presa del segretario sul partito è debole, ma il vero terremoto nelle elezioni è stato il risultato del Movimento 5 Stelle, alla prima prova delle urne. Il campione dell’anti-politica, il “Vaffa” di Beppe Grillo, si presenta in solitaria e diventa il primo partito per numero di voti ricevuti, il 25,56%.

Inizia il calvario della formazione del governo, con Bersani che tenta disperatamente la sponda del Movimento 5 Stelle. Un’umiliazione per il PD: durante l’incontro trasmesso in diretta streaming (abitudine andata persa man mano che gli ex neo eletti prendevano confidenza con il potere e le sue segrete stanze) i pentastellati chiudono la porta in faccia a Bersani in malo modo. L’Italia è più ingovernabile che mai, il Parlamento spezzato tra coalizioni e satelliti anche a causa della legge elettorale Calderoli. Nel mezzo di questa tempesta sociale e politica piombarono le elezioni per il presidente della Repubblica, con un Giorgio Napolitano che aveva già sgomberato il Quirinale e portato le valigie nel suo appartamento di Rione Monti, a Roma.

I travagli del PD: la crisi da cui il partito non è mai guarito

Nel clima infuocato di quell’inizio primavera, l’unico modo per Bersani di mantenere la presa sul PD e formare un governo è la corsa per il Quirinale. La stessa maggioranza che avrebbe consegnato un nuovo inquilino al Colle sarebbe stata infatti protagonista della formazione di un esecutivo, e proprio il neo presidente della Repubblica avrebbe riaperto le consultazioni per un accordo di governo. Chi è ben disposto verso le larghe intese è Silvio Berlusconi, che con il suo PdL è pronto a fare da sponda a Bersani per l’elezione del capo di Stato e poi chissà, anche a governare insieme.

Gli elettori del Partito Democratico, alla prospettiva di alleanza con Berlusconi, entrano in rivolta. Durissime le reazioni della base, mentre il vicesegretario Enrico Letta tenta, insieme allo zio Gianni Letta sul fronte opposto, di cucire un accordo sui nomi da presentare ai grandi elettori. Alla fine si converge su Franco Marini, ma i dem alzano le barricate, in primis Matteo Renzi, che bolla il candidato come una scelta “del secolo scorso“.

L’ex leader della CISL non ce la fa, non raggiunge il quorum e la sua candidatura affonda. I grandi elettori del PD propongono allora i nomi di Massimo D’Alema e Romano Prodi, ma Bersani cerca di imporre la sua autorità frenando la deriva correntista del partito e annuncia che il Professore sarà il candidato unico del Partito Democratico.

Il patricidio del PD: la candidatura di Prodi al Quirinale

In quel 19 aprile Romano Prodi si trova a Bamako, in Mali, come Inviato Speciale per il Sahel dell’ONU. Le notizie che gli arrivano da Roma riportano un vero successo per la sua nomina, con il teatro Capranica dove sono riuniti i grandi elettori del centro-sinistra che la celebra con una “standing ovation”.

Contro la sua candidatura si scatena Silvio Berlusconi, così contrariato da organizzare una manifestazione contro il Professore con PdL, Fratelli d’Italia e La Destra davanti alla Camera. Un inedito fino a quel momento per un’elezione del presidente della Repubblica, ma d’altronde il leader del centro-destra sa che con Prodi (l’unico che è stato in grado di sconfiggerlo alle elezioni per ben due volte) al Quirinale il suo spazio di manovra politico sarebbe finito.

Le speranze che muoiono a Bamako

Prodi viene comunque informato dai collaboratori dell’entusiasmo che serpeggia a Roma, ma gli viene suggerito però di fare alcune chiamate strategiche per capire le reali probabilità che ha di ascendere al Quirinale. Una scelta che si rivelerà latrice di una brutta verità. Prodi, durante una pausa dai lavori al Congresso di Bamako, telefona a Franco Marini, Giorgio Napolitano e Stefano Rodotà, percependo il vento contrario alle sue prospettive quirinalizie. È la chiamata con Massimo D’Alema a fargli mettere il cuore in pace.

Il contenuto lo racconta lo stesso Prodi ad Alan Friedman, che lo riporta su Il Corriere della Sera: “Mi ha detto: ‘Benissimo, tuttavia queste decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti’. Cioè facendone, come si fa sempre in questi casi, una questione di metodo e non di merito. E quando ho ascoltato questo ho messo giù il telefono, ho chiamato mia moglie e le ho detto: ‘Flavia vai pure alla tua riunione perché di sicuro presidente della Repubblica non divento’”. 

L’affossamento dei 101 franchi tiratori

Si arriva dunque alla quarta votazione di una impervia serie, la prima che non richiede la maggioranza qualificata. Prodi incassa 395 voti rispetto ai 496 previsti: mancano all’appello 101 voti dallo schieramento di centro-sinistra. Romano Prodi è stato affossato dai franchi tiratori. Il Professore ritira la sua disponibilità per il Quirinale, e il Partito Democratico fa i conti con i cocci rimasti. Quello che segue è un regolamento di conti senza quartiere: dal partito si levano accuse ai “traditori“, che ancora oggi non si sa chi siano.

I sospetti maggiori cadono su D’Alema e Renzi, che vengono accusati, ognuno per conto proprio, di aver orchestrato l’immolazione di Prodi. Bersani dichiara addirittura che esiste una volontà di “distruggere il PD“, mentre i bersaniani si scagliano contro Renzi, che avrebbe lanciato la candidatura di Prodi per poi affondarla e spaccare il partito.

Il segretario annuncia le sue dimissioni dopo l’elezione del capo dello Stato, così come Rosy Bindi, che si ritira da presidentessa dell’Assemblea dem. “Abbiamo preso una persona, Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, ex presidente del Consiglio, inviato in Mali e l’abbiamo messo in queste condizioni“, dichiara Bersani, “Io non posso accettarlo. Io non posso accettare che il mio partito stia impedendo la soluzione. Questo è troppo“.

La rielezione di Napolitano e lo smacco alla politica

Dopo la débâcle dei 101 franchi tiratori di Prodi la crisi del partito, e della politica tutta, è conclamata. Napolitano, tirato per la giacchetta, viene rieletto (primo caso nella storia della Repubblica) con molta amarezza. Il presidente della Repubblica, dopo il voto, fa un discorso durissimo alle Camere che mette in stato d’accusa il sistema partitico: “Quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità“.

Napolitano, nella surreale cornice degli scroscianti applausi dagli spalti, continua l’invettiva che asfalta i parlamentari: “Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti (…) non si sono date soluzioni soddisfacenti. Hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento“.

L’era Renzi e l’inizio della crisi

Così si conclude l’elezione del 12esimo presidente della Repubblica, che non viene eletto fino al 2015, quando entra in carica Sergio Mattarella. Poco dopo viene formato un governo, quello di Enrico Letta, che sopravvive meno di un anno. Il vero vincente uscito dal tradimento dei 101 franchi tiratori è un altro, Matteo Renzi.

L’8 dicembre 2013, l’ex sindaco di Firenze strappa il PD dalle mani della vecchia guardia, ne diventa segretario e comincia il processo della rottamazione. Il risultato sarà una doppia scissione nei 2 anni seguenti, che coincidono con il governo Renzi. Il PD, dall’affossamento di Prodi, non sarà più lo stesso. Si infrange il sogno di una casa per tutto il centro-sinistra, mentre l’uccisione del padre apre la strada alle lotte intestine da cui il partito non è mai uscito.