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Caso Milena Quaglini, la serial killer che uccideva gli uomini violenti soprannominata l’Angelo Sterminatore

Pubblicato: 10/02/2022 10:52

Soprannominata anche “Angelo Sterminatore”, Milena Quaglini è entrata nella cronaca come una delle poche serial killer italiane. Prima di lei, si annovera Leonarda Cianciulli, meglio nota come “La Saponificatrice di Correggio”.

Nata a Mezzanino, nella campagna pavese, il 25 marzo 1957, Milena Quaglini non vive un’infanzia particolarmente felice, a causa della dipendenza da alcol e della violenza fisica e psicologica messa in atto dal padre contro la moglie e le figlie. La furia violenta del genitore lascia delle tracce indelebili. A queste ferite, se ne aggiungono delle altre, procurate dal marito: violento fisicamente e psicologicamente, dipendente dall’alcol, la obbliga a lasciare il suo lavoro. Milena Quaglini, quindi, si trova da sola a gestire i figli, la casa e le violenze, e a sviluppare anch’essa una dipendenza dall’alcol, fino a quando si coinvolge in prima persona in tre delitti. 

La morte di Mario Fogli 

È il 2 agosto 1998 ed è una domenica. Nella sala operativa di Stradella, in provincia di Pavia, squilla il telefono. Risponde il vicebrigadiere Demontis. Dall’altra parte della cornetta, c’è Milena Quaglini che, agitata, afferma: “Ho ammazzato mio marito”. Il vicebrigadiere cerca di tranquillizzare la donna, la tiene al telefono insieme a lui, parla con le figlie, in modo da assicurarsi che stiano bene. Nel frattempo, allerta la stazione di Broni e invia un’auto sul luogo del delitto. 

Appena il maresciallo Battaglia e l’appuntato arrivano sul posto, entrano nell’abitazione. Quaglini sta ancora parlando con il vicebrigadiere. La signora indica subito il balcone: è lì che si trova il marito, il cui corpo è stato avvolto precedentemente da una coperta e da diversi strati di sacchi di plastica. 

La vittima è il 52enne Mario Fogli. Il cadavere evidenzia numerosi colpi alla testa e una notevole ecchimosi sul collo. La successiva analisi, svolta dall’anatomopatologo dell’Università di Pavia, il professor Giovanni Pierucci, mostra come la morte sia avvenuta per arresto cardiaco, a seguito dell’aggressione. Nello specifico, l’uomo sarebbe morto non per le ferite inflitte, ma per asfissia. 

Milena Quaglini viene subito interrogata. Rivela che il marito era violento, geloso, irascibile nei suoi confronti. La sera prima avevano avuto un forte litigio, che ha portato la donna a volerlo spaventare. Quaglini aveva preso una corda per tapparelle, aveva creato un cappio con dei nodi scorsoi e glielo aveva fatto passare per le caviglie, i polsi e il collo. Il marito si era improvvisamente svegliato e aveva cercato di lottare. 

Al termine, però, lei lo aveva soffocato. In seguito, aveva cercato di nascondere il corpo, in modo che i figli non lo vedessero.

Il 26 aprile 1999, il Tribunale di Voghera condanna con rito abbreviato l’imputata a 14 anni di reclusione, con l’accusa di uxoricidio. Licia Sardo, l’avvocata di Milena Quaglini, ricorre in appello, presentando i problemi legati alla dipendenza da sostanze e da alcol delle donna. Così, ottiene gli arresti domiciliari e, successivamente, viene ricoverata in una clinica per il trattamento della dipendenza stessa. Nonostante ciò, la donna inizia a ottenere il consenso da parte dei mass media. I giornali la descrivono come una casalinga maltrattata, che, dopo l’ennesimo abuso, ha dovuto reagire. 

La vittima numero 2: Angelo Porrello 

Poco più di un anno dopo, martedì 5 ottobre 1999, nelle strade di Bressana Bottarone, sfreccia una Fiat Regata bianca, che i carabinieri decidono di fermare al posto di blocco. Alla guida, c’è Milena Quaglini, che esibisce la sua patente. La macchina è intestata a un certo Angelo Porrello, ma gli agenti sono stupiti da un fatto: la donna dovrebbe essere agli arresti domiciliari. Quindi, la denunciano per evasione e sequestrano l’auto. 

Due giorni dopo, tuttavia, i vigili del fuoco vengono chiamati dalla Quaglini, la quale si è chiusa fuori casa e non riesce più a entrare. A quel punto, si ottiene la revoca degli arresti domiciliari e la donna torna nella sezione femminile del carcere di Vigevano. 

C’è un’altra questione. In quei giorni, infatti, viene denunciata la sparizione di Angelo Porrello dalla figlia. Dopo una quindicina di giorni, non si hanno ancora notizie dell’uomo e l’ex moglie decide di entrare nella sua villa, insieme a un’amica. Le due donne, aiutate da un vicino, iniziano a perquisire l’abitazione e il giardino. Una volta arrivati nella concimaia, sollevano il coperchio in lamiera e trovano il corpo di Porrello in un avanzato stato di putrefazione

Dunque, partono subito le indagini, che mostrano come l’uomo fosse appena uscito dal carcere, in cui ha trascorso qualche anno con l’accusa di violenza sessuale su minori, ossia le figlie. Per di più, trovano delle lettere a lui indirizzate: provengono dal carcere di Vigevano. In un tono piuttosto formale, Milena Quaglini scrive: “Sig. Angelo, la sto cercando da diversi giorni, ma non riesco a rintracciarla. Ho telefonato giorni fa diverse volte ma il suo telefono è spento. Ho da lei diversi oggetti personali, per favore, si faccia sentire. Grazie”. 

Le indagini per gli omicidi

Interrogata all’interno delle mura carcerarie, la donna riferisce di conoscere Angelo Porrello, ma solo superficialmente. Infatti, racconta che, una volta uscita dalla clinica in cui era stata ricoverata, aveva trovato un alloggio presso un amico conosciuto nella casa di cura. Poiché litigavano spesso e, una notte, lui aveva tentato di violentarla, Milena Quaglini aveva iniziato a cercare una nuova sistemazione.

Un giorno, aveva trovato un annuncio di Angelo Porrello nel settimanale “Passaparola”. L’uomo metteva a disposizione il suo appartamento, in cambio delle pulizie e della preparazione dei pasti. Quindi, si erano incontrati e la donna aveva accettato le condizioni. Porrello, nel frattempo, si era recato in questura per farle ottenere il cambio di residenza. Secondo la Quaglini, i loro rapporti erano formali e non sapeva nemmeno della sua morte. 

Tuttavia, nel corso delle indagini, i carabinieri trovano nel letto di Porrello delle tracce di Dna della donna. In cucina, invece, si rinvengono un salvaslip e dei blister di Halcion, avvolti nella carta stagnola. Lo stesso sonnifero era stato rilevato nell’appartamento in cui Milena viveva con il marito.

Dopo una serie di colloqui in cui la serial killer proclama la sua innocenza, Milena Quaglini crolla e ammette la sua colpevolezza al suo avvocato, Lidia Sardo. In seguito, confessa anche agli inquirenti. Racconta di aver trascorso una settimana insieme all’uomo in modo formale e sereno. Quel 5 ottobre, però, gli equilibri erano cambiati: Porrello l’aveva violentata. Durante gli abusi, Milena aveva escogitato un piano per fermarlo. Dunque, gli aveva proposto un caffè, a cui aveva aggiunto due blister di psicofarmaci. 

L’uomo era crollato e la donna lo aveva portato in bagno. Lo aveva spogliato e messo dentro la vasca, facendo scorrere l’acqua. Dopo circa un’ora, era tornata a controllare come stesse e lo aveva trovato immerso nell’acqua, tra le sue feci e il vomito. Pertanto, aveva deciso di nascondere il corpo nella concimaia. 

Il vero primo omicidio di Milena Quaglini

A seguito dell’omicidio di Angelo Porrello, però, gli inquirenti iniziano a collegare un ulteriore delitto a Milena Quaglini. Si tratta dell’83enne Giusto Dalla Pozza. Nel tardo pomeriggio del 27 ottobre 1995 a Este, in provincia di Padova, Milena Quaglini era entrata nell’appartamento di Dalla Pozza, da cui si recava quotidianamente in qualità di donna di servizio. 

Aveva raccontato alle Forze dell’Ordine di aver visto, già nell’entrata, delle macchie di sangue. Successivamente, aveva trovato l’83enne riverso sul pavimento, con il cranio fracassato, immerso in una pozza di sangue e avente un comodino sopra il suo corpo. A quel tempo, tuttavia, il fatto era stato archiviato come morte accidentale. Ora, invece, la confessione dell’omicidio di Angelo Porrello inizia a far leggere la realtà con delle lenti differenti.

I processi a Milena Quaglini

Il 13 ottobre 2000, la Corte d’Appello del Palazzo di Giustizia di Milano è chiamata per l’ultima sentenza relativa all’omicidio di Mario Fogli. Secondo la perizia dello psichiatra Mario Mantero, la donna ottiene il vizio parziale di mente. A ciò si aggiungono altri elementi: le violenze subite, la dipendenza dall’alcol e la confessione della donna. Per queste ragioni, si ribalta la sentenza in primo grado, che aveva stabilito 14 anni di reclusione. Adesso, alla donna vengono assegnati 6 anni e 8 mesi, con la possibilità di scontarli agli arresti domiciliari. 

Qualche mese più tardi, il 2 febbraio 2001, si riunisce la Corte del Tribunale di Padova in merito all’omicidio di Giusto Dalla Pozza. Milena Quaglini riceve la condanna a un anno e 8 mesi, in quanto, al tempo, era incensurata, appena separata dal marito violento e l’atto è stato un eccesso di legittima difesa. 

La questione si complica quando il Tribunale di Pavia è chiamato per il delitto di Angelo Porrello. Secondo il pm Mauro Vitiello Milena Quaglini non è totalmente una vittima. Dopo la legittima difesa, avrebbe potuto chiamare i soccorsi. Invece, aveva lasciato la villa, aveva preso l’auto dell’uomo, gli aveva scritto anche lettere. Per il magistrato, dunque, l’omicidio era premeditato. 

Tuttavia, il 24 ottobre 2001, la Corte d’assise si riunisce, ma l’imputata non è presente in aula: qualche giorno prima, si è suicidata nella sua cella. Pertanto, si dichiara l’estinzione del reato.