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Più lavoro e meno mimose: l’allarmante situazione dell’occupazione femminile e i dati sulle discriminazioni

Pubblicato: 07/03/2022 18:31

Due anni di pandemia hanno causato un salto indietro per le donne in ambito lavorativo. Il cosiddetto “gender pay gap”, cioè la differenza di salario a parità di mansioni, e l’asimmetria tra donne e uomini all’interno del mondo del lavoro sono stati amplificati. Ecco cosa dicono i dati più recenti e cosa devono affrontare le donne tra stipendi più bassi, costi più alti e l’eterna scelta tra lavoro e maternità.

Donne e lavoro, quali sono stati gli effetti della pandemia da Coronavirus

Se il lavoro consente di rendersi indipendenti e di esprimere se stessi, troppo spesso le donne hanno davanti a loro tutti gli ostacoli possibili. Prima la digitalizzazione e poi l’avvento della pandemia hanno colpito con più forza quei settori in cui le donne erano più numerose. La cura dei figli in lockdown o in didattica a distanza e dei famigliari malati, poi, ha fatto il resto ricadendo ancora una volta sulle spalle delle donne e costringendole spesso a rinunciare al lavoro o a preferire un impiego part-time. Con l’avvento della pandemia, l’Istat ha rilevato che il 19,5% delle donne lavoratrici si trova in una situazione di part-time involontario, contro il 10% del periodo pre pandemia. Secondo i dati del Global Gender Gap Report del 2021, a cura del World Economic Forum, il 54% delle donne con bambini a casa ha notato un calo nella propria produttività durante il lavoro da remoto, contro il 46% degli uomini nella stessa situazione. Tra i dati più significativi del report, spicca l’attesa di 135,6 anni prima di poter sanare il divario tra uomini e donne.

Qual è la situazione del gender pay gap nel mondo e in quali settori le donne sono meno rappresentate

Secondo il Global Gender Gap Report, l’ambito politico è quello in cui si registra il divario più ampio. Le donne rappresentano il 26,1% di oltre 35.500 parlamentari e appena il 22,6% di oltre 3.400 ministri in tutto il mondo.  A livello economico, le donne occupano il 27% delle posizioni manageriali, sebbene questa percentuale potrebbe essere ridimensionata a causa dell’ulteriore impatto della pandemia. A livello geografico, la parità di genere è stimata al 77,6% nell’Europa occidentale, al 76,3% nel Nord America, al 71,2% nel Sud America e Caraibi, al 71,1% nell’Europa orientale e in Asia centrale. Seguono con il 68,9% l’Asia orientale e la regione del Pacifico, con il 67,2% l’Africa subsahariana, mentre l’Asia meridionale si attesa al 62,3% e il medioriente e l’Africa del Nord al 60,9%.

Quanto vale il gender pay gap in Italia e qual è la percentuale di donne lavoratrici

In base all’età, i dati analizzati da Eurostat e riferiti al 2019 evidenziano differenze importanti all’interno del nostro Paese. Per le lavoratrici con meno di 25 anni, il gender pay gap si attesta al 3,6%. Aumenta a 4,6% nella fascia di età 25-34 e resta costante anche tra i 35 e i 44 anni. Il gap cresce però al 6,4% nella fascia 45-54 anni e all’8,8% nella fascia 55-64. Questo andamento sembra suggerire che, mentre la carriera degli uomini prosegue senza interruzioni e consente di accedere a carriere economicamente più prestigiose, le donne non ottengono gli stessi riconoscimenti oppure sono penalizzate da precedenti interruzioni della carriera lavorativa. I dati di Eurostat evidenziano anche come in Italia, nel 2019, il gap era del 3,8% nel settore pubblico e del 17% in quello privato. Le rilevazioni Istat stimano che le donne lavoratrici con età compresa tra i 15 e i 64 anni siano appena il 50,1%, contro il 68,7% degli uomini. Geograficamente, la percentuale è pari al 64% al Nord, al 57% al Centro e al 33% al Sud. Anche in questo caso si tratta di rilevazioni ferme al 2019, che evidenziavano all’epoca un divario di circa il 10% nella busta paga: in media, ogni anno una donna guadagna 3.009€ in meno di un uomo.

Stipendi più bassi ma spese alle stelle: la pink tax delle donne

Non solo le donne guadagnano di meno, ma pagano anche di più. Si tratta di un fenomeno noto come “pink tax” o gender tax e consiste nella differenza di costo tra due prodotti identici (per produzione e distribuzione) ma destinata uno agli uomini e uno alle donne. Si va dai prodotti per la cura della persona, come i deodoranti e gli shampoo, che costano in media il 50% in più se sono rivolti alle donne. I profumi da donna hanno un prezzo maggiorato del 29% a parità di marchio e di quantità rispetto a quelli da uomo. Anche l’abbigliamento e le scarpe da donna sono più cari se confrontati con i corrispettivi maschili, con percentuali che arrivano anche al 26%. Le donne pagano anche la “tampon tax”, cioè l’Iva al 22% sugli assorbenti. Un simile valore dell’Iva si applica per esempio ai beni di lusso (ma non al tartufo, la cui Iva è stata dimezzata al 5% pochi anni fa).

Maternità e lavoro, il dilemma senza fine per le donne

La discriminazione delle donne sul posto di lavoro non si limita a stipendi più bassi e a tipologie contrattuali meno vantaggiose e adeguate alle loro competenze. Le donne devono costantemente scegliere se avere dei figli e costruire una famiglia oppure conservare il proprio posto di lavoro. Nel 2020, come riporta Save the Children, il 37% delle donne italiane con 1 figlio e un’età di 25-49 anni di età è inattiva, cioè non lavora. Per le donne con 3 o più figli, questa percentuale di inattività raggiunge il 52,5%. I padri lavoratori sono invece il 90% nella fascia di età 25-54 anni. Secondo L’Istat, nel 2018 sono state 5.000.000 le donne che hanno rinunciato alla maternità perché non avrebbero potuto permettersi il passaggio a un impiego part-time oppure la perdita del proprio posto di lavoro. Anche il congedo di maternità di 5 mesi non è pensato per il benessere delle donne e del bambino appena nato. Questo congedo consiste in un’astensione obbligatoria dal lavoro ed è flessibile, cioè può avvenire 2 mesi prima del parto e 3 mesi dopo, oppure 1 mese prima del parto e per i 4 mesi successivi, o ancora 5 mesi dopo il parto su parere medico. Sono numerose le testimonianze di donne che dopo soli 4 o 5 mesi hanno sofferto nel separarsi così presto dal bambino e nel riprendere i ritmi di lavoro sostenuti in precedenza. Il corpo e la mente, infatti, non sono ancora pronti a un ritorno alla “normalità” in cui non c’è spazio per il bambino appena dato alla luce, in cui i ritmi delle donne non sono rispettati.

Quali sono leggi che dovrebbero contrastare le discriminazioni in caso di gravidanza

Contro le discriminazioni in caso di gravidanza, in realtà, esistono apposite leggi che dovrebbero tutelare le neomamme. L’art. 56 del D.Lgs 151/2001 tutela le donne dal fenomeno del demansionamento in seguito alla gravidanza, mentre il Dl 198/2006 vieta la discriminazione nell’accesso al lavoro, nella promozione, per causa di matrimonio, gravidanza e maternità. Inoltre, il licenziamento in caso di gravidanza non potrebbe avvenire fino al compimento del 1° anno di età del bambino, ma in realtà esistono delle eccezioni che lo consentono per giusta causa, per cessazione dell’attività, fine contratto o esito negativo nel periodo di prova. Contro il fenomeno delle dimissioni anticipate, per esempio il famigerato “foglio bianco” da firmare prima di un’eventuale gravidanza, esiste inoltre la Legge 188/2007.

Ultimo Aggiornamento: 08/03/2022 08:07