Nonostante il fiorire di grattacieli a tortiglione e di boschi verticali, se oggi un architetto ci proponesse di costruire una casa «mobile smontabile meccanica esilarante» e «senza facciata», lo prenderemmo per matto. Se in questa casa, «per fare il bagno l’inquilino dovrà fare un salto di un metro nell’acqua», e la sala da pranzo dovrebbe essere almeno dieci metri sopra il tetto, raggiungibile solo con «un sistema di corde e pertiche», a essere gentili invocheremmo un TSO. Qualcuno, nel 1917, deve aver preso per matto il conte Vincenzo Fani Ciotti, che nel 1914 diffuse queste idee nel suo Decalogo dell’architettura futurista.
Matto invece non era il nobile viterbese che, dopo un ondivago percorso intellettuale, era approdato al movimento marinettiano, e infine al fascismo, proponendosi come teorico di una destra monarchica e cattolica nel movimento mussoliniano che stava per farsi regime, pur essendo un contenitore di tendenze culturali le più disperate. Nel corso della sua breve vita eclettico fu il pensiero di Fani Ciotti, che poi sceglierà “Volt” come nom de plume. Volt come i suoi Archi voltaici (1916).
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Breve e paradossale, la sua vita, se si pensa al contesto familiare in cui nacque, nella Viterbo che in fondo da poco aveva perduto il ruolo di capitale del Patrimonio di San Pietro. Era nato nel 1888, dal conte Fabio e dalla contessa Maria Martuzzi. Il fratello di Fabio, Mario Fani, fondò a Viterbo il Circolo di Santa Rosa e poi, a Bologna, nel 1867, la Società Cattolica della Gioventù Italiana, nucleo originario della futura Azione Cattolica.
Il percorso di Vincenzo avrebbe potuto essere analogo a quello dello zio, morto ad appena 24 anni e in odore di santità. Una famiglia – quella dei Fani – radicalmente cattolica, papista, antiliberale, antimassonica, antirisorgimentale. Certo non si disperò per l’esilio perugino imposto al futuro sindaco liberale Alessandro Polidori, fiero oppositore, nel 1860, dell’occupazione di Viterbo, nel nome del Papa Re, da parte delle truppe francesi del generale Guyon. Né, sette anni dopo, per la vittoria degli zuavi pontifici sui garibaldini a Mentana. Eppure, pur studiando dai gesuiti, il primo impegno pubblico del futuro Volt sarà nella Lega Democratica Nazionale del sacerdote modernista marchigiano Romolo Murri, presto scomunicato da Pio X.
Scrittore, poeta e polemista poliedrico, Volt sarà attivista nazionalista, imperialista, futurista, fascista, antisindacalista, monarchico, reazionario, ma mai inquadrato, sempre capace di esprimersi liberamente e controcorrente. Una figura di intellettuale quasi dimenticata, quella di Fani Ciotti, che ora torna alla luce grazie alle accurate ricerche dello storico delle dottrine politiche Alessandro Della Casa, che gli ha dedicato la biografia La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario, pubblicata dalle edizioni Sette Città.
Vincenzo frequentò poco e saltuariamente la sua città natale. Nel 1906 fu inviato a Vignola, in Emilia, dove visse presso i parenti materni. Frequentò poi l’Università di Roma e si laureò in Giurisprudenza. Vinto il concorso del ministero degli Esteri, sarà addetto consolare a Nizza, senza mai cessare di inseguire i suoi sogni e di collaborare a giornali e a riviste culturali e politiche, dall’Azione Democratica all’Idea Nazionale, da Roma Futurista al Popolo d’Italia, dall’Impero a Critica Fascista, da Gerarchia a La Conquista dello Stato. Affetto da tubercolosi, pur convinto interventista, paradossalmente non poté arruolarsi nella Grande Guerra e fu costretto a lunghi soggiorni nei sanatori. E in quello di Bressanone morì, nel 1927.
Restò tuttavia sempre legato a Viterbo, dove nel 1911 tenne, nella Scuola libera popolare, una conferenza in occasione della fondazione della locale sezione dell’ANI, l’Associazione Nazionalista Italiana. A introdurre la conferenza fu lo studente Achille Battaglia. Diventerà avvocato e poi partigiano azionista. La storia è sempre complessa.
Migrando da un sanatorio all’altro, Viterbo è nel cuore di Volt e a Viterbo spera di poter tornare a vivere. Proprio da Viterbo lo confesserà a Giuseppe Bottai, in una cartolina spedita il 30 ottobre del 1925: se glielo avessero consentito le «condizioni di salute», scrive al gerarca, intende «stabilirsi definitivamente» nella città natale. Che gli serve anche di ispirazione. Nel suo Manifesto del revisionismo futurista (1926), si sente l’eco delle chiese romaniche viterbesi, quando – nota Della Casa – immagina «nuove basiliche di aspetto romanico realizzate in cemento armato e “in una sola grande arcata”, e dunque liberate grazie alla “tecnica moderna” dal “decorativismo” antico (e con il “dinamismo della decorazione futurista […] sobriamente contenuto in una superiore disciplina”) e dalle ancora disprezzate “monotone teorie di colonne”. “Fondendo il nuovo con l’antico”, egli credeva, “l’arte italiana sorgerà dal connubio della dinamo con l’abside dei duomi romanici”».
Mussolini lo indicò tra i precursori, stando ai suoi colloqui con Yvone De Begnac raccolti nei Taccuini mussoliniani, ma ne enumerò moltissimi, anche a casaccio. Chissà che cosa pensava il duce del fascismo del Fani Ciotti convinto che «la dittatura di un solo uomo di Stato è una istituzione necessariamente provvisoria e legata alle sue qualità individuali», e dunque deve essere sostituita da una «nuova aristocrazia». Chissà.
Volt, attratto da tutte le correnti culturali di fine Ottocento e primo Novecento, tutte le attraversò, senza alcuna coerenza. Ma certo in modo genialmente provocatorio, come mette in evidenza Della Casa nel suo studio. Un libro importante, che riesce a tratteggiare il pensiero cangiante di una personalità complessa e contraddittoria.
Il conte Fani Ciotti, morto a 39 anni, non ebbe la ventura di poter valutare a posteriori – e magari sistematizzare – il proprio percorso intellettuale. A cominciare dal rapporto con quel fascismo cui aderì senza poter immaginare che cosa sarebbe stato nei sedici anni successivi.
Resta la sua genialità di irregolare, che per certi versi appare testimonianza e simbolo di un’epoca, il primo Novecento, che correva in modo disordinato e arrembante verso la modernità. L’epoca in cui si celebravano la velocità e il cemento armato, si voleva abolire il matrimonio e si santificava il libero amore, come Volt auspicava su Roma Futurista. In fondo, dopo, non si è inventato molto. A pensarci bene.