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Riforma Meloni, il premierato? Tutti i difetti uno per uno (parola di esperti)

Pubblicato: 03/11/2023 19:08

Progetto di riforma costituzionale: gli italiani devono poter scegliere chi guiderà il Governo. Ma come si può essere sicuri del risultato quando è l’ideologia a dettare i criteri delle modifiche? Tanti, quasi unanimi, i dubbi dei costituzionalisti. Il pacchetto varato oggi – all’unanimità – dal Consiglio dei ministri contiene il testo che dovrebbe portare l’Italia, dopo il passaggio alle Camere, a rivoluzionare il suo sistema di rappresentanza democratica: da quello parlamentare a un unicum, il premierato forte. “È la madre di tutte le riforme”, ha sentenziato Giorgia Meloni subito dopo il Cdm, non senza il solito carico di enfatizzazione spinta. Rimarcando i punti salienti del progetto che, verosimilmente, potrebbe portare gli italiani alla fine di questo processo di modifica alle urne, per chiederne l’approvazione con il referendum previsto dalla stessa Costituzione quando si riforma uno o più articoli della Carta.
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Giorgia Meloni: “Diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare”

Dopo il primo sì del governo oggi la premier ha spiegato così la riforma. «Garantisce il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo fine alla stagione del trasformismo e dei governi tecnici». Per poi aggiungere che «con le riforme si garantisce la stabilità per avere credibilità e un orizzonte di fine legislatura». Oltre a rimarcare che i poteri del presidente della Repubblica non verranno ridotti. Ma è proprio così? Sulle prime bozze circolate sono marcate le osservazioni da parte dei costituzionalisti, più critici che a favore soprattutto sull’impianto dell’elezione diretta del premier.

Ma attenzione: la stessa bozza votata oggi sottintende soltanto che la riforma si accompagni a una nuova legge elettorale, caratterizzata da un – sostanzioso – premio di maggioranza alla coalizione che esce vincente dal voto. Si legge, nell’ipotesi del nuovo articolo 92 della Costituzione, che “la legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei Ministri”. Su questo tema è già intervenuta la Corte costituzionale. Ma soprattutto appare fondata la critica sulla non soluzione al problema che la modifica punta a risolvere: un forte premio in seggi sostiene e rafforza una maggioranza se questa usce compatta e coesa dalle urne. Altrimenti finisce per funzionare da stampella a chi, in Parlamento e quindi al governo, non rappresenta il Paese. Altro che governabilità assicurata.

Il parere dei costituzionalisti

Elezione diretta del presidente del Consiglio: secondo il centrodestra tutto – ma già non mancano i distinguo di alcuni parlamentari – il primo ministro che oggi viene nominato dal presidente della Repubblica, dopo le consultazioni per accertare che ci sia una maggioranza, sarà “eletto a suffragio universale e diretto”. Nelle intenzioni del governo saranno i cittadini a incoronare il premier, scegliendo il loro candidato alle urne. Poi il presidente della Repubblica gli consegnerà il mandato – in forma semi-notarile – di formare il governo. Processo che la gran parte dei costituzionalisti boccia senza esitazioni analizzando le diverse esperienze storiche.

“Ci hanno provato anni fa in Israele, ma dopo pochi mesi questa formula è stata abolita perché manteneva la figura del Capo dello Stato, esautorandola di molti poteri. Rendendola una figura irriconoscibile”, ha obiettato Cesare Pinelli, ordinario di diritto pubblico all’Università la Sapienza. Non solo. Per Francesco Clementi, professore di Diritto pubblico comparato sempre alla Sapienza, “non è detto che così si combatterà l’astenzionismo, fenomeno molto preoccupante di questi ultimi anni in Italia. Perché l’elezione diretta del premier produrrebbe l’effetto di rendere i cittadini dei tifosi, secondo un modello trumpiano o bolsonariano. Mentre a noi servono cittadini consapevoli che il loro voto sarà ascoltato”. 

Meno severa l’analisi di Sabino Cassese, ex giudice della Corte costituzionale, sulle intenzioni che imbocca la riforma, anche se ritiene che senza il meccanismo della sfiducia costruttiva – come avviene in Germania – non si faccia molta strada. Per sfiduciare il primo ministro, sostiene, “bisogna trovare contestualmente un nuovo governo che disponga di una maggioranza”.

Sul nodo gordiano della fiducia del parlamento al premier la riforma detta il percorso, a iniziare dall’esito del voto per le politiche. “Entro dieci giorni dalla sua formazione – dice la bozza – il Governo si presenta alle Camere per la fiducia. Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche quest’ultimo non ottenga la fiducia, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”. La novità sostanziale della nuova proposta sta nel normare, o meglio nel tentare di farlo, la situazione quando si presenta una crisi di governo. Come?

“In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario – recita il testo varato dal Cdm – o a un altro parlamentare candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”. Difficilmente lo si sarebbe potuto rendere più contorto.

Troppa rigidità

Per Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, “dobbiamo interrogarci se un’eccessiva rigidità, dove oggi ci sono spazi di flessibilità, sia opportuna”. Mentre per Clementi questo disegno di legge “crea tre ostaggi. Primo, il premier è ostaggio della sua maggioranza, quest’ultima è ostaggio del premier e il presidente della Repubblica è ostaggio perché non può far nulla in caso di crisi”. Sarebbero infatti esclusi i tanto vituperati – dal centrodestra attuale – governi tecnici: per questo in passato non sarebbero mai nati i governi, autorevoli quanto necessari al Paese, guidati da personalità come Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi. 

Secondo un altro presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, la così detta norma anti-ribaltone crea un paradosso: “Il secondo premier della legislatura, che non riceve un mandato popolare a governare, avrebbe più poteri del premier eletto dai cittadini, disponendo lui dell’arma dello scioglimento delle Camere”. Mentre per Massimo Luciani, costituzionalista alla Sapienza, chiamare alla guida del governo come secondo premier un parlamentare di maggioranza eletto non per fare il premier “è la dimostrazione del fallimento di qualsiasi norma anti-ribaltone”. Più duro Pinelli: “L’elettore è il primo a essere ingannato se nel corso della legislatura gli cambiano le carte in tavola: lui voleva X, lo ha votato, invece arriva a un certo punto Y. Non può funzionare”.

Il ruolo del Capo dello Stato

Centrale nel dibattito sulla bozza di riforma resta dunque il ruolo del Capo dello Stato, il quale dal 1948 a oggi ha un potere inequivocabile: nomina il primo ministro e, successivamente, può accettarne le dimissioni e può scioglire le Camere. Poteri destinati a essere ridimensionati, a dir poco. Secondo Clementi così “il Capo dello Stato, anche in momenti di difficoltà, vedrebbe le sue mani ancor più legate: verrebbe meno il Presidente della Repubblica come motore di riserva che si attiva in momenti di crisi”. Per poi aggiungere l’altro rischio: “Con questa mancanza di flessibilità, con questa figura del Presidente della Repubblica che non può intervenire neanche in caso di crisi tra il premier e la sua maggioranza, si andrebbe a votare anche più volte in un anno”. Per Mirabelli ci sarà “una forte limitazione della libertà del Quirinale, che sarebbe sempre più ridotto a un ruolo notarile”. Per Flick non ci si rende conto “che la creazione di due fonti, una parlamentare per la nomina del Capo dello Stato e l’altra elettorale per la legittimazione del premier, è destinata a creare una notevole frattura tra i due soggetti istituzionali”. 

Ultimo Aggiornamento: 03/11/2023 20:03