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Gli stipendi italiani non sono competitivi: troppe tasse per i datori di lavoro

Pubblicato: 20/03/2024 15:35
stipendi italiani

“L’Italia cresce più della media europea”, è il refrain quasi quotidiano che arriva dal governo di Giorgia Meloni. Poi si pubblicano i dati certificati e si scopre che la realtà è anche un’altra: gli stipendi in Italia restano i più leggeri del Continente. Per non parlare poi dei rilievi della Corte dei conti sui fondi del Pnrr per la sanità pubblica.

Nel quarto trimestre del 2023 il costo orario del lavoro in Italia è diminuito dello 0,1%.Una flessione minima, si dirà, ma che inserita nel contesto economico interno costituisce un ulteriore peso che frena il potere d’acquisto degli italiani. Anche perché la cifra in negativo è l’unica nel panorama europeo e si scontra con un costo orario del lavoro che è aumentato del 3,4%, nell’area Euro, e del 4% nell’Unione europea rispetto allo stesso trimestre del 2022.

Il dato ufficiale fornito oggi dall’Eurostat – Ufficio statistico dell’Ue -certifical’Italia come unico Paese con il segno meno, e non solo per l’inflazione. Va specificato che il costo orario del lavoro comprende i costi salariali (retribuzione, premi e indennità in busta paga) e i costi non salariali (contributi sociali e imposte a carico dei datori di lavoro). Dal report i costi delle retribuzioni orarie sono aumentati del 3,1% nell’Eurozona e del 3,8% nell’Ue, mentre la componente non salariale è salita rispettivamente del 4,2 e del 4,6%. Al contempo in Italia le retribuzioni sono scese dello 0,1% e le tasse sul lavoro dello 0,2%.

maggiori aumenti del costo orario salariale per l’eurozona si sono registrati nei Paesi dell’Est: la Romania al 16,9 %, in Ungheria 16,3 %, Croazia 16%, Polonia 13,1 % e Slovenia 12,5 %. Aumenti oltre la soglia del 10% in altri quattro Stati Ue: sono Bulgaria (11,9 %), Lituania (11,2 %), Lettonia (11,1 %) ed Estonia (10,9 %). Il tasso di crescita annuale del costo orario del lavoro è stato rivisto al ribasso dal 5,7 % al 5,6 % per l’Ue.

Danimarca (1,9%), Germania (2,2%) e Irlanda (2,5%) sono i Paesi in cui in costo del lavoro è cresciuto meno. In Italia, il costo medio del lavoro è pari a 29,4 euro l’ora, in linea con la media europea (30,5 euro). Ma l’incidenza in Italia delle tasse sulla spesa complessiva a carico del datore di lavoro è in media del 27,8%, tre punti in più rispetto all’Unione europea.

Ma non è soltanto l’ufficio centrale europeo di statistica a consegnare dati non in linea con la sfolgorante campagna di immagine che avvolge il governo Meloni dall’insediamento. Come rilevato dal sito Fanpage.it anche la Corte dei Conti riserva critiche al decreto legge governativo sul Pnrr (D.l. 2 marzo 2024 n.19). Dalle sezioni riunite della magistratura contabile arriva un’osservazione puntuale alle “Ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Si tratta del decreto Pnrr del governo, ora in commissione Bilancio della Camera per essere convertito in legge. Il decreto prevede tagli alla spesa sanitaria rispetto alla prima stesura del Piano, come spiega la Corte dei Conti nella memoria depositata nell’audizione davanti alla commissione (la memoria della Corte conti).

In sintesi, la revisione governativa ha previsto diversi tagli e spostato i fondi da alcuni progetti ad altri. Per la Corte l’intervento è stato positivo laddove ha evitato che il Pnrr non fosse completato il tempo; negativo invece per i singoli interventi. Con cui ha sollevato dei problemi. Per la sanità, ad esempio, su cui sussistono “interventi finanziari di particolare rilievo”: come quello da 1 miliardo e 200 milioni di euro, prima destinati al programma “Verso un ospedale sicuro e sostenibile”. Questi stessi fondi sono stati spostati per finanziare altre iniziative, e quindi l‘investimento in sanità è stato al momento eliminato (in tutte le Regioni tranne Trentino-Alto Adige e Campania). Nel decreto Pnrr il governo non parla di taglio perché “ci si limita a modificare la copertura finanziaria del programma, ponendola a valere su risorse nazionali”. Ovvero, i soldi previsti arriveranno in futuro da un altro capitolo. Ma c’è un problema.

La Corte rileva che con questo intervento, oltre a “ridurre l’ammontare complessivo delle risorse destinabili a investimenti in sanità, si incide su programmi di investimento regionali già avviati”. In buona sostanza, il decreto promette che i soldi tagliati poi torneranno, ma senza indicare da dove; inoltre al momento obbliga le Regioni a lasciare tutto in sospeso. Di fatto il decreto legge porta al “rinvio dell’attuazione del progetto a quando saranno disponibili spazi finanziari adeguati”. Sempre che se ne trovino.