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Il caso Serena Doe: quando l’unica cosa importante è fornire le prove al tribunale di Twitter

Pubblicato: 04/06/2024 14:25

Il dramma di mitizzare, è il dover scoprire che i miti non esistono. Mai. 

Il dramma dell’ergersi paladini di qualcosa è il dover scoprire che non siamo paladini di tutto, o per tutti. Mai.

Serena Mazzini, conosciuta su Instagram come Serena Doe, è nota per le sue battaglie e per essere una sorta di Selvaggia Lucarelli allo stato larvale. Il modus operandi è il medesimo, tanto che collaborano professionalmente: è Mazzini la co-autrice di Il Sottosopra, il podcast lucarelliano, per esempio.

Mazzini combatte tante importanti e buone battaglie, come ad esempio quella dello sharenting (diffondere e pubblicare foto dei propri figli o in generale minori senza assicurare loro una tutela) e parla molto di tutela della privacy sui social. Ne parla facendo nomi, cognomi e colore dei capelli, puntando il dito e provocando, come sempre accade in questi casi, inevitabili shitstorm. Accusa fenomeni e persone. Ne evidenzia – di entrambi – incoerenze. Il suo target d’analisi principale? Gli influencer (vi ricorda qualcuno? Sì, come Selvaggia Lucarelli) e tra i suoi nemici a tempo indeterminato c’è Fedez (vi ricorda qualcuno? Sì, come Selvaggia Lucarelli). È giornalista e scrivere per Il Fatto Quotidiano e Domani (vi ricorda qualcuno? Sì, eccetera eccetera).

Serena Mazzini non ha problemi a battere il matterello e dire “colpevole, silenzio in aula!” ed è considerata da moltissimi voce della verità. Ha avuto nell’ultimo anno un successo enorme ed è considerata un’autorità. Cosa potrebbe mai andare storto?

Le denunce social – e pare non solo – delle influattiviste

Ovviamente, che qualcuno usasse i suoi metodi su di lei, ma non a caso. Pare infatti, ad ascoltare le testimonianze di influattivisti come Carlotta Vagnoli, Valeria Fonte e Silvia Semenzin, che Mazzini abbia predicato bene e con supponenza ed abbia razzolato male, anzi malissimo. Sarebbe stata membro (o addirittura amministratore, non è ancora chiaro) di un gruppo telegram dal nome Animaletti contro la censura dove avrebbe condiviso materiale privato (foto intime, chat verdi di Instagram, fatti privati veri o presunti) riguardanti le diverse influattiviste sopra citate e non solo. Tale materiale sarebbe servito a scatenare commenti d’odio o di stampo cyberbullistico. Qualcuno però pare abbia storto il naso davanti a questi materiali, e li abbia girati a Fonte, Vagnoli e compagnia bella che hanno reagito 1) dichiarando di voler denunciare 2) tirando fuori sassolini dalle loro scarpe.

Fonte, ad esempio: “Ieri pomeriggio vengo a scoprire che Serena Mazzini, che oggi annuncia la cancellazione del suo profilo, ha fatto parte di un gruppo Telegram (fondato dai suoi adepti) in cui ha condiviso senza consenso mie chat private, mie foto per amici stretti, tra cui una foto afters3x, con annessi commenti misogini. Un gruppo con 70 persone. 70 persone che mi hanno vista semi-nuda senza che io abbia avuto scelta. 70 persone che hanno letto mie chat private. Sapete che mi ricorda? I fantomatici gruppi Telegram degli incel. Che bello, quando chi si occupa di sharenting, di privacy, di lato oscuro dei social, diventa lei stessa il lato oscuro dei social”. E Vagnoli: “Sono stata avvisata di essere stata presa di mira, insieme a tante altre persone, da un gruppo privato di 70 persone creato da Serena Mazzini, con cui non ho mai parlato in vita mia. Nel gruppo c’erano mie storie verdi, informazioni private, deliri sulla mia vita sessuale, personale, sul mio lavoro, attacchi d’odio feroci. Commenti violenti, misogini, transfobici, commenti sui corpi, sulla vita sessuale delle persone, sul loro privato, sul presunto loro privato. Un gruppo chiamato Animaletti contro la censura in cui il branco si cibava di materiale ottenuto in modo non consensuale e perfino chat e messaggi privati di alcune persone [..] Bizzarro modo di agire per chi lavora sulla tutela della privacy. Bizzarro modo di agire da parte di un gruppo pieno di persone che si sono più volte definite transfemministe”.

Il vero e unico tribunale che conta

Ovviamente, le interessate non hanno condiviso gli screenshot che sono stati loro girati. Come avrebbero potuto? Loro stesse sono il corpo del reato: i loro corpi nudi, le loro immagini private. Il fatto stesso di diffonderle sarebbe il reato, perché dovrebbero replicarlo violando la loro stessa privacy? Eppure, questo è il punto più interessante di tutta la vicenda: non la reazione di Mazzini, che prima scrive su Instagram che chiuderà il profilo, poi non lo fa, ma non si difende a spada tratta. Non lo sconcerto del comportamento in sé, che mostrerebbe Superman che spara sui cittadini di New York mentre vola dall’alto (se verificato ed effettivamente vero). Il punto è che la critica mossa alle vittime di questa chat è una e una soltanto: se siete vittime, perché non mostrate queste foto? Perché non rinunciate voi per prime alla sfera intima perché NOI DOBBIAMO VEDERE, e niente esiste se non viene postato sui social?

Sarebbe come dire a una vittima di violenza sessuale: se sei stata stuprata ed esiste un video dello stupro, perché non lo condividi su Tiktok? Fa specie che a dirlo sia anche Selvaggia Lucarelli – che si mostra ovviamente garantista come mai lo è, in questa circostanza – e dice: “Son accuse infamanti le cui prove solide e inequivocabili sono delle storie Instagram. Storie Instagram di gente che “sa” ma non mostra alcuna prova a supporto di ciò che dice. Mi spiace, ma il mio modo di lavorare e la mia professione mi fanno provare orrore e raccapriccio per queste modalità cialtrone e pericolose di accusare qualcuno”.

In tutto ciò, il mondo di X è impazzito, frecce vengono scagliate in ogni direzione: chi l’ha fatta più grossa? Chi accusa meglio? Chi di più? Ma soprattutto, dove deve venire fuori la verità, nelle aule? Nelle caserme? No, c’è un solo posto in cui sembra a tutti che debba essere tagliata la testa del colpevole, vai a capire chi è: il feed di un social network. Affilate le lame delle ghigliottine. In tutto questo, Serena Mazzini tace, il che per lei è decisamente strano. 

Lucarelli, sul tema del “Vogliamo vedere le prove, i veri giudici siamo noi!” Sembra avere un’opinione molto netta. La espone riprendendo il commento di un utente che dice: “Chiedere a una vittima di violenza digitale di pubblicare prove della violenza subita è vittimizzazione secondaria”. A questo, Lucarelli risponde: “Quindi sul web possiamo scrivere qualsiasi cosa di chiunque senza prove (chiamiamola vittimizzazione primaria) e chiedere le prove è vittimizzazione secondaria. La manipolazione e la violenza di gruppo mascherata da femminismo è il vostro giochetto preferito”. E chiude con un messaggio importantissimo, fondamentale, senza alcun interesse personale: “Vi consiglio la lettura del mio prossimo libro. Protagonista: la vittimizzazione secondaria. Quella vera”.

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