
di Diletta Riccelli
C’è una strada che collega via Trionfale a Piazzale Clodio, Viale dei Cavalieri di Vittorio Veneto, dai romani chiamata semplicemente la “panoramica”. Immersa nel verde, dalla quiete del quartiere residenziale Balduina, ti conduce direttamente nel caos del tribunale. Se ci si passa con la macchina, l’area sembra un fortino inespugnabile. Inespugnabile fino al 16 luglio del 1999, quando le sorti di quello che dovrebbe essere uno dei luoghi più sicuri dell’intera Capitale, il caveau del tribunale, cambiano dal giorno alla notte. Definito il colpo del (fine) secolo con un solo grande movente: il ricatto allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino “eccezionale”: «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare lucchetti, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare. Ma soprattutto hanno chi gentilmente apre la porta: una talpa.
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Una “carica intimidatoria” pazzesca il colpo del secolo. Un ricatto ben confezionato che si propaga e si insidia lentamente nelle aule e nei processi più importanti della storia criminale italiana. Dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Dietro a questo colpo di genio c’è lui: il cecato, Massimo Carminati.
Il complesso, interamente recintato e sorvegliato 24 ore su 24 dai carabinieri, ospita al suo interno l’agenzia 91 della Banca di Roma. Massimo Carminati e i suoi complici entrano nel recinto utilizzando un furgone identico a quelli in uso ai carabinieri, eludendo così i controlli di sicurezza. Intorno a mezzanotte e mezza, in otto penetrano nel caveau sotterraneo senza forzare alcuna serratura, grazie alle chiavi e alle combinazioni fornite da un complice interno: un impiegato della banca che si trova in difficoltà economiche.

«Queste cassette sono roba mia» intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» Le sentenze spiegarono poi che Carminati era alla disperata ricerca di documenti per ricattare magistrati, per costruire le fondamenta solide di una carriera criminale strabiliante. Come poi è avvenuto. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Roma si sveglia quella domenica di luglio, assopita dal caldo, sorpresa da un evento che sembra quasi ai confini della realtà. La Roma in toga ha paura. Ha paura perché all’interno delle cassette c’erano documenti riservatissimi. Nulla che però, in fase di indagine, sia mai stato denunciato. Il processo, celebratosi a Perugia per ovvie motivazioni, ipotizza che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa».
Vittime di questo furto personalità come i fratelli Wilfrido e Claudio Vitalone, rispettivamente avvocato e magistrato, il secondo coinvolto, processato e assolto nel processo relativo all’omicidio Pecorelli; Domenico Sica, magistrato, prefetto, titolare delle indagini relative alla sparizione di Emanuela Orlandi, all’uccisione di Aldo Moro, all’attentato a Giovanni Paolo II; Francesco Caracciolo di Sarno, avvocato, presidente degli Ostelli della Gioventù di Via Carlo Poma, luogo dove venne assassinata Simonetta Cesaroni.
L’indagine parte subito in quarta e gli inquirenti si concentrano inizialmente sui telefoni di alcuni funzionari della banca. I sospetti ricadono subito su Orlando Sembroni, dipendente del tribunale che conosce molto bene il luogo dove sono installate le cassette. In breve tempo si scopre che Sembroni è debitore di una grossa somma, alimentando i sospetti sul suo coinvolgimento nel furto per recuperare denaro. Altro punto focale è la questione furgone, ritrovato e ispezionato, era stato affittato da Lucio Smeraldi, noto cassettaro romano, insieme a Vincenzo Facchini. Entrambi coinvolti nel furto. Infine, le indagini svelano il coinvolgimento diretto del Brigadiere Adriano Martiradonna, la famosa talpa. Martiradonna si occupa anche del furgone utilizzato nel furto, incaricando il carrozziere Antonio Battista di verniciarlo in modo da renderlo identico a quello dei carabinieri. Battista però rifiuta l’incarico. Il carrozziere rivela che nei mesi precedenti ha accompagnato più volte Martiradonna nei pressi del Tribunale per sopralluoghi ed ispezioni del complesso, parte della preparazione per il colpo. Le indagini portano anche all’identificazione di altri possibili complici, tra cui l’imprenditore e ex cassettaro Stefano Virgili e il suo socio Pietro Tomassi. Insomma, in pochissimo tempo si delinea con tratti chiari e precisi l’organizzazione certosina del piano.

Piano che, vale a Carminati, in attesa di giudizio al processo per la morte di Mino Pecorelli, la totale assoluzione. Va peggio ad Andreotti che deve attendere la Cassazione per vedersi finalmente “libero”. Ma non è la sola “emergenza giudiziaria” per il cecato. Carminati è imputato di aver fornito a due ufficiali del Sismi il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale». Insomma, è braccato. E l’unica cosa che può salvarlo, è il furto. Per la questione relativa ai mitra e all’esplosivo viene condannato in primo grado ma nel 2001 la sentenza è ribaltata completamente. “Il reato è prescritto”. Per il furto al caveau, Carminati invece viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001. La condanna per il colpo diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E da qui parte un’altra storia, ancor più avvincente: Mafia Capitale.