Una presa di posizione che molti faranno fatica a inquadrare, sia negli schemi impolverati della politica, sia nella banalità della retorica sull’Europa. L’intervento di Mario Draghi sul Financial Times – in cui ha invitato l’UE a lasciarsi ispirare dalla politica economica dell’attuale governo laburista del Regno Unito – ha delineato una visione economica che non solo risponde alle attuali sfide del Continente, ma si propone come modello di sviluppo a lungo termine.
Il pensiero dell’ex presidente della Banca Centrale Europea ed ex primo ministro italiano Draghi si sviluppa attorno a cinque concetti centrali: un incremento degli investimenti pubblici su scala nazionale ed europea, l’adozione di politiche fiscali progressive, un focus sulla crescita endogena, la condivisione della sovranità fiscale e il riformismo economico. Questi principi riflettono sia una chiara aderenza a idee economiche consolidate, sia una tensione verso l’innovazione e la modernizzazione: Draghi non propone di scavare buche per poi riempirle, tanto per spendere soldi pubblici e far girare la macchina dei consumi, ma di scegliere lucidamente investimenti pubblici necessari per potenziare la produttività e sostenere lo sviluppo di settori strategici, come le infrastrutture, l’innovazione tecnologica e la transizione verde, in un Continente che sta affrontando crisi esistenziali come mai era accaduto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi.
La proposta di Draghi include un importante accento sugli investimenti in tecnologia e innovazione come fattori essenziali per la competitività europea, una posizione che trova risonanza nella teoria della crescita endogena. Secondo questa teoria, lo sviluppo economico è principalmente guidato da fattori interni, come la ricerca e lo sviluppo, l’innovazione tecnologica e l’accumulo di capitale umano. Draghi sottolinea l’importanza di creare un ambiente che favorisca l’innovazione e il trasferimento tecnologico, elementi fondamentali per garantire una crescita autonoma e sostenibile.
Nulla toglie dalla testa di chi scrive che Draghi abbia in mente la crisi demografica e l’età ormai avanzata della società europea quando propone la ricetta del “debito per l’innovazione”: con tutti i caveat e le specifiche del caso, ma siamo tutti consapevoli che creatività e innovazione albergano più facilmente nelle menti giovani, e che l’Europa ha oggi bisogno di compensare lo svantaggio anagrafico che sta accumulando con altre aree del pianeta ricorrendo a quel che ancora detiene: la credibilità e la solidità di attrarre capitali privati che comprino un debito destinato a finanziare innovazione, e dunque anche ad attrarre talenti e cervelli del pianeta alla ricerca di fondi per sviluppare le proprie idee.
Una delle proposte più audaci di Draghi è la maggiore condivisione della sovranità fiscale tra gli Stati membri dell’UE. In un mondo sempre più interconnesso e segnato da sfide geopolitiche complesse, Draghi vede l’integrazione fiscale come un pilastro per costruire una resilienza economica duratura. Questa posizione apre il dibattito sulla necessità di istituire meccanismi fiscali comuni, capaci di coordinare le politiche economiche europee, mitigando così le disuguaglianze tra i Paesi membri e aumentando l’efficacia delle risposte alle crisi. Un welfare comune? Ne discuteremo a lungo su L’Europeista.
L’approccio riformista di Draghi mira a modernizzare le istituzioni economiche e fiscali europee, con l’obiettivo di renderle più adeguate alle sfide attuali. Questo riformismo include la razionalizzazione della spesa pubblica (ripetiamo: Draghi non è quello delle buche scavate per essere riempite), investimenti mirati in settori strategici e una revisione delle regole fiscali, in un’ottica di sostenibilità a lungo termine.
L’approccio dell’ex premier italiano solleva diverse questioni per la politica europea e nazionale. In ambito europeo, il suo programma implica un rafforzamento del coordinamento tra gli Stati membri, con l’obiettivo di costruire una politica economica e fiscale comune. Ciò richiede una volontà politica di condivisione del rischio e di accettazione di vincoli comuni, due elementi spesso ostacolati dalle divergenze tra le politiche nazionali. Tuttavia, l’attuazione di questi principi è l’unica reale possibilità per avere non solo maggiore coesione, ma anche per rafforzare il ruolo di attore globale dell’Unione Europea.
A livello nazionale, i governi sarebbero chiamati ad adattare le proprie politiche fiscali, abbandonando l’approccio di austerità in favore di strategie di crescita a lungo termine basate su investimenti in settori chiave. Tuttavia, questo richiede un cambiamento di paradigma culturale e istituzionale, che potrebbe incontrare resistenze soprattutto nei Paesi più orientati al rigore di bilancio.
In conclusione, la visione di Draghi propone un’economia europea più integrata, resiliente e orientata alla crescita sostenibile. Draghi è diventato uno “spendaccione”? È diventato “de sinistra”? No, Draghi è semplicemente un europeista pragmatico.
Piercamillo Falasca
direttore de L’Europeista