Ogni anno ci risiamo: qualcuno, da qualche parte, decide che il Natale è troppo “ingombrante”. Via il presepe, via la stella, via perfino la parola “Natale”, per far posto a generiche celebrazioni di stagione come il “bell’inverno”. Il risultato? Un’involuzione culturale mascherata da inclusività, che rischia di svuotare di senso una tradizione millenaria che appartiene a tutti, credenti o meno.
Non si tratta di imporre una visione religiosa, ma di riconoscere che il Natale è parte della nostra identità culturale, un momento di unione e riflessione che supera i confini della fede. Cancellarlo o “annacquarlo” per non offendere è un controsenso, perché in realtà non celebra la diversità, ma nega le radici.
Eppure, nel gelo del “politicamente corretto”, il messaggio di pace e solidarietà del Natale sembra diventare scomodo. Non si vuole offendere nessuno, e così si finisce per banalizzare tutto: un bel mercatino, qualche regalo, una canzone neutra, e via. Ma davvero pensiamo che chi appartiene ad altre culture o religioni si senta minacciato da un presepe o da una stella cometa? Forse siamo noi a sottovalutare la nostra intelligenza collettiva, creando problemi dove non ce ne sono.
Il rischio è evidente: trasformare il Natale in una mera celebrazione consumistica senza anima. È un paradosso: nel tentativo di essere inclusivi, finiamo per essere superficiali, perdendo il valore profondo che questa festa porta con sé.
Allora no, non accettiamo il “bell’inverno”. Torniamo a chiamare le cose con il loro nome e a celebrare il Natale per quello che è: un simbolo di speranza, rinascita e comunità, in cui ciascuno può ritrovarsi senza bisogno di cancellare niente.