
Il caso di don Natale Santonocito, parroco di San Cesareo, ha riacceso il dibattito sulla libertà di espressione all’interno della Chiesa cattolica. Il sacerdote, appartenente alla diocesi di Tivoli e Palestrina, è stato scomunicato per aver pubblicamente sostenuto che Papa Francesco non è il legittimo pontefice.
La decisione è stata resa nota dal vescovo Mauro Parmeggiani, che ha spiegato come il procedimento canonico sia stato avviato dopo la pubblicazione di alcuni video, il primo dei quali risale all’8 dicembre scorso. In essi, don Santonocito affermava che Jorge Mario Bergoglio sarebbe un “antipapa” e che Benedetto XVI, scomparso nel 2022, sarebbe rimasto il vero Papa fino alla sua morte.
Dopo la diffusione di questi contenuti, il vescovo aveva già adottato misure cautelari, limitando le facoltà ministeriali del sacerdote. Tuttavia, a metà dicembre, don Santonocito ha rilanciato con un nuovo video, il cosiddetto “messaggio di Natale“, in cui ribadiva e approfondiva le sue posizioni. Durante il processo canonico, il sacerdote non ha ritrattato, portando avanti la sua convinzione.
La scomunica ha conseguenze gravi: don Santonocito non potrà più celebrare messa né avere parte attiva nella vita della Chiesa. Una misura estrema, ma prevista dal diritto canonico per chi si allontana dai fondamenti dottrinali stabiliti.
Una questione di fede o di disciplina?
Il caso di don Santonocito è solo l’ultimo esempio di un fenomeno più ampio che vede alcuni fedeli e sacerdoti contestare l’autorità di Papa Francesco, spesso richiamandosi a una presunta irregolarità della sua elezione. Una contestazione che ha radici profonde, alimentata anche da interpretazioni teologiche divergenti e da un crescente dissenso interno alla Chiesa.
Per i sostenitori della linea ufficiale, la scomunica è un atto dovuto: il Papa è il garante dell’unità della Chiesa e chi nega la sua autorità mina il principio stesso della successione apostolica. Per altri, invece, si tratta di una punizione eccessiva che colpisce un sacerdote colpevole solo di aver espresso una convinzione personale maturata in coscienza.
La vicenda lascia aperte molte domande: fino a che punto un sacerdote può esprimere il proprio pensiero senza incorrere in sanzioni ecclesiastiche? Qual è il confine tra fedeltà alla propria coscienza e obbedienza alla gerarchia? E soprattutto, questa scomunica servirà a spegnere il dibattito o, al contrario, lo alimenterà ancora di più?
Domande che restano sospese, in un tempo in cui la Chiesa si trova a gestire sfide interne ed esterne sempre più complesse.