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“Ora è in un convento, andiamo a prenderla”. Emanuela Orlandi e la clamorosa rivelazione

Pubblicato: 12/03/2025 09:05

C’è un episodio nell’intricata vicenda di Emanuela Orlandi che sintetizza con drammatica intensità i quasi 42 anni di speranze, delusioni e attese vissuti dalla sua famiglia. Peppange, un piccolo villaggio nel sud del Lussemburgo, con poco meno di mille abitanti e un imponente convento benedettino, è il luogo dove, nel 1993, mamma Maria, papà Ercole e il fratello Pietro si recarono con la speranza di aver finalmente trovato Emanuela. Dopo aver ricevuto rassicurazioni che la ragazza fosse stata “esiliata” nel monastero, la famiglia Orlandi si avventurò in questa missione, ma il riconoscimento si rivelò un fallimento. Un’amara delusione che torna ora alla ribalta, con la convocazione della commissione parlamentare d’inchiesta che ha chiamato Nicola Cavaliere, capo della Sezione omicidi della Questura di Roma all’epoca dei fatti, ora ai vertici della polizia e dei servizi segreti. L’audizione di Cavaliere è stata fissata per giovedì 13 marzo 2025, riaccendendo l’interesse su quell’episodio lussemburghese e sui dubbi che ne scaturirono.
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Era il luglio del 1993, a dieci anni e un mese dalla scomparsa di Emanuela. L’inchiesta, in quel periodo, aveva subito un’impennata a causa del coinvolgimento di Raoul Bonarelli, un funzionario della Gendarmeria vaticana, che abitava vicino a Mirella Gregori, l’altra quindicenne sparita. In un contesto che coinvolgeva ambienti della Santa Sede, emerge una nuova pista: una fonte confidenziale dell’avvocato Gennaro Egidio, legale sia degli Orlandi sia dei Gregori, raccontò che Emanuela sarebbe stata rapita, sedata e portata in un convento in Lussemburgo, dove aveva perso la memoria e viveva come novizia. La fonte, un certo Frank Dobon, fu ritenuta affidabile. La destinazione era chiara: il monastero di clausura di Peppange, nel cantone di Esch-sur-Alzette, vicino al confine con la Francia.
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La testimonianza della fonte era supportata da alcune fotografie in bianco e nero che ritraevano una giovane donna, vestita con un abito simile a quello di una suora, con i capelli raccolti dietro, seduta accanto a un organo, come se stesse per suonare. “Pensammo alla sua passione per la musica”, ricorda Pietro Orlandi. “Il viso, la corporatura e la postura sembravano proprio quelli di Emanuela. Era lei, dovevamo partire”. Le fotografie confermarono la convinzione della famiglia, e l’indagine sembrava prendere piede.

A rinforzare le speranze della famiglia Orlandi, anche la reazione positiva da parte della Procura e degli investigatori, guidati da Nicola Cavaliere. “L’entusiasmo degli inquirenti era quasi pari al nostro”, racconta Pietro. Fu lui a comprare i biglietti aerei, agitando l’agenzia di viaggio, convinto che Emanuela sarebbe stata finalmente libera. Oltre a Cavaliere, la trasferta fu accompagnata anche dal giudice istruttore Adele Rando. L’organizzazione sembrava impeccabile: il vescovo locale autorizzò l’invasione della clausura, e la gendarmeria lussemburghese cooperò pienamente, mostrando sulla lavagna una mappa della zona e spiegando il piano di “liberazione”.

Il convento fu circondato, e gli agenti armati, in contatto radio, eseguirono un blitz. Pietro Orlandi ricorda un poliziotto, che parlava con i giornalisti a Roma, pronti a diffondere la notizia del ritrovamento. Il momento clou sembrava essere arrivato.

Gli Orlandi furono accompagnati dentro il convento e fatti sedere in un ufficio. “Aspettammo con ansia. Poi entrò la madre superiora, e mia madre si alzò di scatto”, racconta Pietro. “Le feci un segno di incoraggiamento, col pollice verso l’alto. Ma poi, la doccia gelata.” La verifica del riconoscimento durò pochi istanti: Maria Orlandi, guardando la monaca, capì che non era sua figlia. “Mamma tornò dopo cinque minuti, era pallida e distrutta. Capì subito che non era Emanuela”. La monaca che incontrarono, Patricia Dubois, non assomigliava nemmeno lontanamente a Emanuela. Era una giovane belga, nata nel 1964, e la sua presenza nel convento non faceva che aumentare la confusione.

Pietro ricorda quella scena con tristezza: “Avevo comprato due pinguini di marmo per Emanuela. Li tenevo stretti, sperando di consegnarli a mia sorella, ma invece…”. La trasferta in Lussemburgo si concluse con una delusione amara, e la famiglia Orlandi tornò a Roma, avvolta da una malinconia struggente.

Oggi, con le nuove inchieste giuridiche avviate dalla Procura di Roma e dal Vaticano nel 2023, sorgono ancora molte domande. Perché gli investigatori erano così convinti che Emanuela fosse lì? Perché la Procura e la polizia si esponevano così tanto, organizzando una missione con il chiaro obiettivo di “liberarla”? La presenza dei familiari sembrava indicare che avessero delle prove solide, non semplici speculazioni per creare un evento mediatico.

Un interrogativo finale rimane: lo Stato italiano ha raccolto informazioni che suggeriscono che il Vaticano possa aver coperto il rapimento di Emanuela? La missione in Lussemburgo sembra lasciare dubbi in proposito.

Pietro Orlandi, nel 2012, avanzò un’ipotesi intrigante: “E se Emanuela fosse stata lì, ma fosse stata sostituita all’ultimo momento?” La risposta a questa domanda, insieme a molte altre, potrebbe risiedere nelle informazioni ancora segrete. Giovedì 13 marzo 2025, la testimonianza di Nicola Cavaliere potrebbe finalmente fare chiarezza su quella missione enigmatica in Lussemburgo.

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Ultimo Aggiornamento: 19/03/2025 09:31

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