
In un Paese dove l’accusa più feroce che puoi ricevere è di parlare “difficile”, Vittorio Feltri pubblica un libro sul latino. E lo fa, va detto, con uno stile che è tutto tranne che pesante. Il latino lingua immortale, edito da Mondadori, non è un saggio per classicisti dal naso all’insù, ma una dichiarazione d’amore ironica, pungente, appassionata per una lingua che ancora ci parla. E che oggi, 18 aprile 2025, Giornata Internazionale del Latino, vale la pena leggere.
Sì, perché secondo Vittorio Feltri il latino è ben più di un reperto archeologico, disciplina noiosa da liceo classico. È «lievito madre», così scrive il sacerdote Giulio Dellavite nell’introduzione, linfa che ha fatto fiorire arte, letteratura, filosofia e innovazione, prima piattaforma della finanza, nonché rete interdisciplinare del sapere universitario. Una lingua che ha abbattuto steccati, scavalcato muri e creato ponti. Altro che materia morta: il latino è stato l’incipit dell’Europa. E forse, suggerisce il libro, potrebbe anche tornare a esserlo.
Vittorio Feltri non si limita alla nostalgia: fa ciò che riesce meglio alla sua penna, cioè rimescolare la tradizione con l’attualità, il colto con il quotidiano. E così scopriamo che termini come monitor, summit o mass media, che ci illudiamo di aver adottato dall’inglese, in realtà hanno radici latine profonde. E poi ci sono le espressioni che usiamo per darci un tono, come ad esempio, «alea iacta est». Solitamente tradotta con «il dado è tratto», essa viene da Cesare ed è considerata la frase emblema di decisioni irrevocabili. Ma il direttore bergamasco avverte: potrebbe essere un errore di trascrizione da Svetonio. L’originale corretto sarebbe «alea iacta esto», un imperativo: «Si tiri il dado». Non una constatazione, ma un invito a rischiare, a scegliere, a gettare il cuore oltre il Rubicone.
Il libro non è solo un catalogo di curiosità linguistiche: è una sorta di pamphlet culturale. Difatti Vittorio Feltri difende con veemenza il latino a scuola, smonta i luoghi comuni sull’inutilità della lingua “morta”, e parteggia con fierezza per la «fazione conservatrice», contro gli «antilatinisti dell’ultramodernità». E con un’ironia tagliente l’autore ricorda che chi ha ben chiaro il latino, capisce meglio anche la nostra lingua. Non è un vezzo per élite, Feltri è contro il citazionismo dilagante: si tratta di uno strumento democratico per non affogare nella mediocrità diffusa. «Una buona conoscenza del latino permette una migliore comprensione dell’italiano. E c’è di più: rispettarlo e preoccuparsi di tenerlo in vita ci aiuta a preservare la ricchezza del patrimonio culturale che abbiamo alle nostre spalle, che ha superato quasi indenne tanti secoli e che è il midollo, l’essenza più autentica della nostra tradizione ideale e civile», evidenzia Feltri.
E poi c’è la parte più godibile de «Il latino lingua immortale»: l’attualizzazione. In un libro che celebra il passato, Feltri non rinuncia a pescare nel presente. E così, quando ad esempio cita l’ex presidente del consiglio Mario Draghi, il tono si fa quasi epico. Il «whatever it takes» del 2012, quella frase pronunciata dall’economista alla BCE per salvare l’euro, viene rivisitata come un moderno costi quel che costi. L’autore immagina l’ex dirigente sfilare a Bruxelles con la scritta in sovrimpressione «veni, vidi, vici». La fantasia basta a far capire che il latino è sintesi perfetta di azione e visione.
È impossibile poi non cogliere una suggestione che Feltri lascia sullo sfondo, ma che vale la pena rendere esplicita: il «whatever it takes» di Draghi somiglia in tutto e per tutto al todo modo di Ignazio di Loyola. Quell’idea di agire costi quel che costi, con determinazione, richiama proprio la radicalità spirituale del fondatore dei Gesuiti. Un rigore che è vocazione, il latino come principio guida per muoversi e far fronte alle ostilità della vita. È lingua che orienta, struttura l’azione e infine la giustifica.

Per concludere, «Il latino lingua immortale» non è un manuale, né un esercizio di erudizione. È un libro piacevole che riesce, con leggerezza e intelligenza, a rimettere in circolo un’idea di cultura viva, utile, necessaria. Una cultura che non si vergogna di citare Cicerone e che può ancora sfoderare, se serve, un bel do ut des per capire la politica di oggi. O un homo homini lupus per descrivere certe rumorose riunioni condominiali. Vittorio Feltri lo sa: si può scherzare su tutto, ma non sulla lingua che ci ha costruiti. E oggi, nel giorno in cui il latino si celebra a livello internazionale, il suo libro suona come una bella provocazione: «Senza la conoscenza del latino, siamo orfani delle nostre radici. E un popolo senza radici non ha futuro. Così si diventa schiavi inconsapevoli del presente».