
Nel cuore del Vaticano, nella cappella bianca dalle geometrie moderne e spoglie, la salma di Papa Francesco giace composta, sorvegliata da due guardie svizzere in alta uniforme. Indossa i paramenti liturgici rossi del martirio, le mani intrecciate sul rosario. Davanti a lui, un piccolo gruppo di cardinali in preghiera, la luce filtrata dal soffitto come in una cattedrale contemporanea. Non c’è folla, ma arriverà. Non è questo il momento della moltitudine: è il momento del passaggio.
L’esposizione del corpo di un pontefice non è mai soltanto un gesto di pietà, ma un atto profondamente politico e antropologico. La morte di un Papa non è la fine di un’esistenza individuale, ma l’interruzione di un potere che, simbolicamente, non può morire. È in questo contesto che si comprende l’eccezionale carica rituale di ciò che sta accadendo.

Cosa cambia dal Medioevo
Il sociologo tedesco Ernst Kantorowicz, nello studio I due corpi del re, ha descritto la distinzione medievale tra il corpo naturale e quello politico del sovrano. Anche il Papa possiede questo doppio corpo: da un lato è un uomo, fragile e mortale; dall’altro è il successore di Pietro, il capo della Chiesa universale, un’istituzione che si autorigenera. Il rito dell’esposizione, la vigilanza cerimoniale, l’attesa ordinata del popolo: tutto serve a mettere in scena il passaggio della sovranità da una persona al mistero che continuerà oltre di lei.
Dal punto di vista antropologico, questo momento rientra nella categoria dei riti di separazione, come li definiva Arnold van Gennep. Si tratta di quei riti che, all’interno delle società tradizionali, segnano la rottura tra lo stato precedente e quello nuovo. Il corpo del Papa è ora in una fase liminale: non più vivo, non ancora completamente “trasfigurato” nella memoria e nella successione. È sospeso. E proprio questa sospensione è necessaria affinché la comunità religiosa e politica possa elaborare la trasformazione.
Esporre il corpo, dunque, non è un’esigenza emotiva o mediatica, ma un atto di continuità simbolica. Il potere spirituale non può interrompersi bruscamente, ha bisogno di un tempo in cui la morte venga accettata ma non ancora assimilata. La presenza del corpo, visibile, toccabile con lo sguardo, serve a legittimare l’assenza che verrà. E al tempo stesso, prepara il terreno all’elezione del successore.

Il rito non parla solo alla fede, ma alla struttura sociale del potere sacro. L’abbigliamento del defunto, la disposizione della salma, i simboli visivi (il rosario, l’anello, il catafalco), sono strumenti che consentono alla società di riconoscere ciò che sta perdendo e ciò che, sotto altra forma, rinascerà. In questo senso, la morte del Papa è anche una messa in scena del carisma istituzionalizzato, secondo la formula di Max Weber: ciò che fu dono personale (la parola di Francesco, i suoi gesti, il suo stile) viene ora reintegrato nella struttura che sopravvive a ogni singolo pontefice.
Quel corpo, immobile al centro della cappella, non è solo ciò che resta. È ciò che consente il fluire ordinato del tempo sociale, della memoria collettiva, della trasmissione del sacro. L’arrivo del popolo sarà il completamento di questa traiettoria. Ma il senso profondo del rito si sta già compiendo, nel silenzio solenne che precede la moltitudine.