
A un anno e mezzo dal giorno in cui il suo nome è diventato simbolo del dolore e dell’impotenza del mondo di fronte ai crimini di guerra a Gaza, emerge il volto di uno dei presunti responsabili della morte della piccola Hind Rajab, la bambina di cinque anni rimasta uccisa nel gennaio 2024 durante un’operazione militare israeliana nella zona di Tel al-Hawa, a Gaza City.
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Hind, lasciata morire mentre chiedeva aiuto
Era il 29 gennaio quando la piccola Hind, insieme agli zii e al cuginetto, tentava di fuggire dall’ennesimo ordine di evacuazione lanciato nell’area. L’auto su cui viaggiavano è stata colpita più volte. A sopravvivere, inizialmente, solo lei e la cugina maggiore Layan, che riesce a contattare la Mezzaluna Rossa Palestinese. Poi, un’altra raffica: sessantadue colpi mettono fine anche alla vita di Layan. Hind si rifugia sotto i sedili, nascosta tra i corpi dei familiari.
Per oltre tre ore la bambina rimane in contatto con i soccorritori. “Ho paura, per favore vieni”, supplica all’altro capo del telefono, mentre intorno a lei continuano gli spari. È la sua voce, fragile e lucida, a trasformare quell’evento in una tragedia simbolo della guerra nella Striscia di Gaza. Un’ambulanza viene inviata sul posto. “Vedo l’ambulanza”, dice Hind. Poi la linea cade. Non si saprà più nulla fino a dieci giorni dopo.
Il ritrovamento dei corpi e le prove smentite
Solo quando le truppe dell’Idf, l’esercito israeliano, si ritirano dalla zona, viene ritrovato il corpo di Hind, accanto a quelli della famiglia. La bimba è rannicchiata dietro il sedile anteriore. Poco distante, l’ambulanza distrutta della Mezzaluna Rossa: dentro, i resti dei due paramedici partiti per salvarla.

L’Idf ha da subito negato ogni responsabilità, affermando che nessuna unità militare si trovava nell’area al momento dell’attacco. Una versione però smentita da immagini satellitari, analisi balistiche, audio esclusivi e testimonianze che erano già stati pubblicati da Repubblica un anno fa. Materiali che hanno consentito agli attivisti della fondazione Hind Rajab di portare avanti un’indagine autonoma e accurata.
Un nome, una denuncia: chiesto il mandato di arresto
Nel giorno in cui Hind avrebbe compiuto sette anni, la fondazione che porta il suo nome ha annunciato di aver identificato e denunciato alla Corte penale internazionale il comandante ritenuto responsabile dell’operazione militare in cui è morta. Si tratta del luogotenente Beni Aharon, all’epoca a capo della brigata 401 dell’Idf. Secondo la denuncia, fu lui a ordinare l’attacco all’auto della famiglia Rajab, e sempre sotto il suo comando fu colpita anche l’ambulanza inviata per i soccorsi.
“Possiamo confermare che anche il battaglione che operava sotto il suo comando il 29 gennaio è stato interamente identificato”, afferma una nota della fondazione. Presto, assicurano, verranno depositate anche le denunce individuali contro i soldati presenti quel giorno. “Quegli uomini non sono più sconosciuti. Il silenzio non li protegge più”.
All’ufficio del procuratore Karim Khan, la fondazione ha richiesto l’emissione di un mandato d’arresto internazionale per Aharon. Ma non si fermeranno qui: “Stiamo preparando documenti anche contro gli ufficiali del battaglione, che verranno denunciati presso corti nazionali in base al principio della giurisdizione universale”.
Una promessa di giustizia per Hind
La fondazione, guidata dal presidente Dyab Abou Jahjah, promette di non lasciare nulla di intentato: “Procederemo contro ogni ufficiale coinvolto: chi ha dato gli ordini, chi ha sparato, chi ha coperto, chi ha lasciato che accadesse”. Nel giorno che avrebbe dovuto essere di festa, la famiglia e i sostenitori della piccola Hind provano a trasformare il dolore in azione legale, per impedire che una simile tragedia possa restare impunita.
“Oggi Hind avrebbe spento sette candeline. Invece stiamo dando un nome al suo assassino. Questo è solo l’inizio. Risaliremo a ogni nome, ogni anello della catena. Per giustizia, e per verità”.
Un grido che attraversa le rovine della guerra, con la forza di una voce bambina che non ha mai smesso di chiedere: “Per favore, vieni a prendermi”.