
Non tutti i pontificati iniziano con una dichiarazione di debolezza. Non tutti scelgono di deporre la propria autorità ai piedi della folla, davanti al mondo, in diretta. Papa Leone XIV lo ha fatto. Nel momento più alto, quello dell’intronizzazione, ha pronunciato parole che hanno il suono di un disarmo. «Sono stato scelto senza alcun merito», ha detto, e subito dopo ha aggiunto: «Sono servo della vostra fede». Nessun “vicario di Cristo” nel tono, nessun trionfo, nessun “io”. Solo la consapevolezza che il potere, se non lo si rovescia, finisce per rovesciare chi lo impugna.
Quelle parole – semplici, povere, evangeliche – pesano più di ogni formula liturgica. Pesano perché rompono una tradizione antica di proclamazioni solenni e autorità ecclesiale rivestita di incenso. E pesano perché dette oggi, davanti a un mondo frammentato e spaventato, valgono come un’esposizione al rischio: il rischio di non comandare, ma di ascoltare.
C’è un filo rosso che lega l’esordio di questo pontificato al nome scelto: Leone, ma non come figura di potere, bensì come simbolo del coraggio che serve per mostrarsi fragili. E non è forse questa la forma più radicale della forza spirituale? Rinunciare ai meriti, dichiararsi immeritevoli, significa strappare la maschera sacra del potere per rivelare il volto umano del pastore.
Quel “senza alcun merito” non è falsa umiltà. È la denuncia implicita di ogni narrazione ecclesiastica che fonda l’autorità su una superiorità morale. È l’ammissione, in mondovisione, che si può guidare la Chiesa solo camminando tra gli ultimi, non sopra di loro. È un Papa che – in piena continuità con Francesco – si mette in fila, non davanti ma in mezzo, e si lascia spingere da chi crede, più che guidare chi dubita.
Perché ciò che abbiamo visto in piazza San Pietro non è solo una cerimonia. È stato un atto politico e spirituale insieme. In un momento in cui l’umanità chiede certezze, Leone XIV ha scelto di rispondere con la certezza dell’umiltà. In un tempo che confonde autorità e dominio, ha restituito alla parola “servo” la sua dignità originaria: quella di chi si piega per sollevare.
E se davvero questo sarà il tono del suo pontificato, se queste parole non resteranno solo un gesto inaugurale ma diventeranno stile, allora oggi abbiamo assistito non all’insediamento di un Papa, ma all’inizio di una rivoluzione silenziosa. Una Chiesa che serve, che non giudica, che non si rifugia nei dogmi per paura del mondo, ma che si espone, senza alcun merito, per fede. Come il popolo che la abita.