
Luci fredde, studio raccolto, toni accesi. Un filosofo contro tutti, e una conduttrice che incassa e rilancia con l’ironia. È lo scenario di un confronto che si trasforma presto in scontro a Otto e mezzo, il programma serale di approfondimento politico in onda su La7. Il filosofo Massimo Cacciari si trova al centro del dibattito sul più doloroso dei temi: la violenza che esplode nel cuore dell’adolescenza, quella che toglie la vita a una ragazzina e lascia il Paese con una domanda muta e spaventata.
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Le parole rimbalzano tra i volti in studio e chi ascolta da casa. Cacciari non modera il tono, chiede di non essere interrotto, sbotta ma non deraglia. Tiene il filo del ragionamento, lo ancora alla responsabilità politica e culturale. Non accetta che la violenza venga rubricata come mera cronaca. “Non è un fatto. È un segno dei tempi”, sembra voler dire. E lo dice, con forza e amarezza, nel corso di un confronto segnato da parole dure, scambi pungenti, e da una convinzione che si fa appello.
Il femminicidio di Martina Carbonaro e il silenzio politico
Il caso che ha scosso le coscienze è quello della morte di Martina Carbonaro, la quattordicenne di Afragola uccisa a colpi di pietre dall’ex fidanzato, Alessio Tucci, appena diciannove anni. Un femminicidio tanto brutale quanto spiazzante, per l’età delle vittime, per la modalità dell’aggressione, per la storia che vi si nasconde dietro. Non si tratta più solo di delitti tra adulti. È il disagio giovanile che si arma, che si trasforma in violenza cieca, che chiede spiegazioni e spesso ne trova poche.
Cacciari parte da qui per scagliare una critica netta al sistema politico e culturale. “Oggi occorrerebbe una buona politica che finanzia una buona scuola, che incentiva e promuove una buona cultura nelle scuole”, ha detto. Per il filosofo, l’educazione non può essere piegata alla logica della formazione professionale. Non deve “insegnare un mestiere”, ma servire a “attrezzare i giovani ad affrontare i salti d’epoca”. E questo, aggiunge, è compito della buona politica, quella che oggi sembra mancare.

Il confronto con Lilli Gruber e la critica a Nordio
Durante la puntata, il tono si accende anche per le continue interruzioni della conduttrice Lilli Gruber, che fanno perdere la pazienza al filosofo: “Mi lasci finire di parlare, benedetta”, sbotta. La giornalista replica con un sorriso sarcastico: “Sono benedettissima”. È uno scambio che resta nei toni civili, ma che riflette il clima teso e la difficoltà di parlare di questi temi senza scivolare nella superficialità.
Cacciari poi attacca anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio, giudicandolo “assai lontano da questo tipo di sensibilità”. Non basta, dice, trattare i femminicidi come reati: “Per affrontare la questione serve una coscienza. Non si tratta di semplice cronaca nera. È un salto d’epoca, difficile, lungo, che genera frustrazione e disagio nei soggetti più deboli, culturalmente ed economicamente disarmati”.
Abbiamo un problema culturale, politico, bisogna intervenire nelle scuole, bisogna fermare questo linguaggio volgare e prepotente che attualmente viviamo, analisi perfetta del professore #cacciari #femminicidio #ottoemezzo pic.twitter.com/v8TyFuFrSU
— simone (@Simone_978_) May 28, 2025
Giovani ignorati da una politica gerontocratica
Il bersaglio si allarga presto al sistema nel suo insieme, definito da Cacciari “gerontocratico al 100%”. Le politiche pubbliche, dalla scuola alla sanità, sarebbero orientate esclusivamente a proteggere gli over 60, mentre i giovani, pur essendo i più esposti al disagio contemporaneo, sono i meno tutelati. “A me può anche far ridere, ma in realtà mi fa incazzare da morire”, ammette con rabbia contenuta. “Li trattiamo peggio di come venivo trattato io quarant’anni fa”.
Interrogato su cosa dovrebbe fare il governo, Cacciari è chiaro: bisogna rimettere i giovani al centro, rivedere i livelli retributivi, rifinanziare la scuola pubblica, reintrodurre strumenti di sostegno come il presalario universitario. “Il diritto allo studio oggi in questo paese è andato in pensione”, denuncia. “La scuola è tornata a essere una scuola di classe al 100%”.
Un contesto culturale segnato dalla violenza
In chiusura, la riflessione si allarga a un quadro culturale più ampio. Secondo il filosofo, non è solo la cronaca nera a restituire l’immagine di un’epoca violenta, ma un intero linguaggio sociale che ha interiorizzato la competizione come unica via di riscatto. “La violenza si manifesta anche nella sensazione di dovercela fare da soli, di non essere protetti, di dover competere per sopravvivere”, ha detto. Una competizione malata, che non costruisce ma distrugge.
I giovani, oggi, vivono sotto una pressione che altre generazioni non conoscevano. E in questo ambiente, avverte Cacciari, il linguaggio della violenza diventa familiare, quasi inevitabile. Il caso di Martina è l’estremo di questa deriva, ma dietro ogni episodio c’è una cultura che ha smesso di proteggere, di educare, di coltivare coscienza. Ecco perché, conclude, non si tratta solo di individuare un colpevole o cambiare una legge. Si tratta di riscrivere un progetto di civiltà. E il primo mattone, per farlo, è sempre la scuola.