
Il mondo della musica piange uno dei suoi protagonisti più visionari. È morto a 83 anni Brian Wilson, fondatore, mente creativa e anima inquieta dei Beach Boys. Insieme ai fratelli Dennis e Carl, al cugino Mike Love e all’amico Al Jardine, Wilson aveva dato vita a un gruppo che avrebbe ridefinito le coordinate del pop americano, aprendo strade impensabili al rock contemporaneo.
Conosciuto per le armonie celestiali, le produzioni sperimentali e le melodie che sembravano venire da un’altra dimensione, Wilson è stato molto più di un semplice cantante o compositore: era un compositore sinfonico in un corpo da surfer, un genio del suono capace di vedere l’invisibile. Il suo lavoro ha attraversato il sogno americano degli anni Sessanta, fotografandolo con luci psichedeliche e ombre profondissime.
Un’infanzia difficile, una mente brillante

Nato il 20 giugno 1942 a Hawthorne, California, Wilson cresce in una famiglia instabile: un padre violento, un talento precoce, un’ossessione per la perfezione. A soli ventidue anni firma alcuni dei brani più celebri della band, come “Surfin’ U.S.A.”, “I Get Around” e “California Girls”. Ma è nel 1966 che il suo genio tocca l’apice: “Pet Sounds”, considerato da molti critici uno degli album più belli e influenti della storia della musica, cambia per sempre le regole del gioco. Persino Paul McCartney lo citerà come fonte di ispirazione per la realizzazione di “Sgt. Pepper”.
Ma mentre il mondo celebra la sua arte, la mente di Wilson comincia a cedere. I primi segni di instabilità mentale, l’uso di droghe, la pressione commerciale e le tensioni interne ai Beach Boys lo portano progressivamente all’isolamento. Il suo capolavoro incompiuto, “Smile”, diventa leggenda prima ancora di vedere la luce.
Un ritorno difficile e una riscoperta tardiva

Dopo anni segnati da depressione, psicosi e abusi farmacologici, Wilson lentamente rinasce. Negli anni Duemila, sostenuto dalla seconda moglie Melinda e da alcuni amici fidati, torna a esibirsi, recupera “Smile” e lo pubblica nel 2004 tra l’entusiasmo di pubblico e critica. Quel disco, nato nel 1967 e abbandonato per oltre trent’anni, diventa il simbolo della sua resilienza creativa.
Il suo stile compositivo, influenzato da George Gershwin, Phil Spector e dalla musica corale, ha lasciato un’impronta indelebile non solo nella musica americana, ma nell’intero panorama internazionale. Wilson era capace di unire strutture classiche e forme pop, creando un linguaggio musicale nuovo, fatto di stratificazioni sonore, armonie vocali impensabili e sensibilità emotiva estrema.
Un’eredità che va oltre il tempo
Brian Wilson era, e resterà, una figura tragicamente unica: un Mozart del surf pop, un uomo che ha saputo suonare le onde, ma anche ascoltarne il rumore più cupo. Dietro l’immaginario di spiagge e sole californiano, ha saputo raccontare la solitudine, la fragilità, la ricerca dell’amore e la perdita di sé.
Le sue canzoni continuano a vivere nelle colonne sonore, nei ricordi collettivi, nei cuori di chi ha trovato nella sua musica un rifugio. E come scrisse in una delle sue canzoni più belle, “God only knows what I’d be without you”, oggi è il mondo a sussurrare la stessa frase, rivolgendosi a lui.