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Schiavizza moglie e amante costrette a convivere nella stessa casa: condannato a 20 anni

Pubblicato: 13/06/2025 14:11
Padova schiavizza moglie amante

Una storia che ha i contorni di un incubo e che si è consumata nella provincia di Padova, tra Galliera Veneta e Cittadella, dove un uomo di 47 anni ha trasformato la sua abitazione in un luogo di terrore per due donne: la compagna ufficiale, di 61 anni, e l’amante, di 49. Il processo, concluso ieri, ha portato a una condanna esemplare a 20 anni di carcere per violenza sessuale aggravata, maltrattamenti e lesioni personali. Una pena superiore persino a quella richiesta dalla Procura.
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Convivenza forzata e punizioni disumane

Tutto ha avuto inizio nel 2023, quando il quarantasettenne ha imposto alla propria compagna storica la convivenza con l’amante. Le due donne sono state costrette a vivere sotto lo stesso tetto in un appartamento di Cittadella, in una dinamica completamente sbilanciata e permeata da violenza fisica e psicologica. L’uomo non solo pretendeva l’accettazione di questa coabitazione, ma imponeva alle vittime punizioni umilianti e degradanti, inflitte a turno.

Tra gli episodi più scioccanti emersi durante il processo, vi sono le violenze inflitte con candeggina versata addosso, gli stupri, le esposizioni forzate sul balcone in biancheria intima per ore come forma di umiliazione pubblica e i rapporti sessuali obbligati davanti alla finestra per renderli visibili ai passanti. Azioni che si ripetevano con spietata regolarità, in un contesto di terrore quotidiano.

Minacce, intimidazioni e un’aula trasformata in teatro di sopraffazione

L’uomo ha mantenuto un atteggiamento minaccioso e prevaricatore anche durante il processo. In aula, non ha esitato a intimidire l’amante, arrivando a chiederle il ritiro della querela e terrorizzandola con frasi come: «Ammazzo te e tutti gli altri», «Do fuoco alla palazzina», «Tu non sai chi sono io, sono stato battezzato dalla ‘ndrangheta, ne ho ammazzate di persone». Minacce documentate e presentate tra gli atti dell’accusa, che hanno aggravato ulteriormente la sua posizione.

La pubblica accusa, pur avendo chiesto una pena di 8 anni, si è vista superare dal tribunale di Padova, che ha riconosciuto la gravità dei fatti e la reiterazione delle condotte violente, optando per una condanna ben più severa.

Il racconto delle vittime tra violenze e vergogna

Nel corso del dibattimento, le due donne — assistite rispettivamente dagli avvocati Laura Mazzonetto e Alessandra Nava — hanno ricostruito il clima di sottomissione e sofferenza vissuto tra le mura domestiche. In una delle circostanze più drammatiche, la donna di 49 anni è stata costretta a praticare un rapporto orale all’uomo davanti a una portafinestra di un condominio, con l’altra compagna obbligata ad assistere sotto minaccia.

Un’altra punizione, inflitta alla compagna più anziana per aver cucinato male un piatto, ha previsto ore di permanenza sul balcone in soli slip, con la sola finalità di umiliarla agli occhi dei vicini. Le lesioni documentate parlano chiaro: la donna più giovane ha riportato contusioni, ecchimosi e una frattura alle costole, con una prognosi di 35 giorni. La convivente ha avuto una prognosi di 21 giorni dopo essere stata picchiata per essersi rifiutata di pulire l’urina dell’uomo. A queste violenze fisiche si è aggiunta una profonda depressione diagnosticata dai medici.

Burocrazia beffarda e scarcerazione temporanea

Dopo la denuncia, le donne hanno avuto il coraggio di rompere il silenzio e raccontare tutto. Ma a quell’atto di forza è seguita una beffa burocratica: l’uomo, inizialmente arrestato, era stato scarcerato per un vizio di forma, poiché gli atti processuali non erano giunti nei tempi prescritti. Una svista che ha momentaneamente restituito la libertà a un individuo che aveva imposto un regime domestico da vero e proprio aguzzino.

Il processo, però, ha rimesso al centro la gravità delle sue azioni. La sentenza di 20 anni di reclusione rappresenta una risposta forte, seppur tardiva, dello Stato a una vicenda che ha mostrato con lucidità quanto possano essere sottili i confini tra mura domestiche e prigione, tra relazione e dominazione violenta.


Un caso che, oltre a colpire per la sua crudeltà, interpella direttamente le istituzioni sulla necessità di prevenire le violenze domestiche, rafforzare i controlli, e garantire che la giustizia non si inceppi nei suoi meccanismi formali. Le due donne, oggi finalmente libere dal loro carnefice, restano il simbolo doloroso ma potente di un coraggio che ha saputo rompere il silenzio.

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