
Alle 10:25 del 2 agosto 1980, nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Bologna, il tempo si fermò. Un ordigno nascosto in una valigia esplose con devastante violenza: 85 morti, oltre 200 feriti, l’ala ovest della stazione sventrata, e una città intera gettata nel terrore. Fu la strage più grave del Dopoguerra italiano, cuore nero della strategia della tensione. Oggi, quarantacinque anni dopo, è arrivata una delle parole finali sulla vicenda: ergastolo definitivo per Paolo Bellini, ex esponente di Avanguardia Nazionale, ritenuto coautore materiale dell’attentato.
Lo ha stabilito la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, che ha rigettato i 18 motivi di ricorso avanzati dalla difesa dell’imputato. Insieme a lui, sono state confermate anche le condanne a sei anni per l’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel, accusato di depistaggio, e a quattro anni per Domenico Catracchia, amministratore di condomini romani in via Gradoli, colpevole di aver fornito false informazioni al pubblico ministero.
Una lunga battaglia per la verità
Il procuratore generale della Cassazione, Antonio Balsamo, ha definito il quadro probatorio “solido”, rilevando che la sentenza impugnata “coordinava in modo logico le prove raccolte” e rispettava pienamente il principio del “oltre ogni ragionevole dubbio”. Le prove della colpevolezza di Bellini sono state considerate coerenti, plurime e convergenti, e la Corte d’Assise d’appello di Bologna – già confermando l’ergastolo – aveva escluso ogni vizio di motivazione.
Nonostante le richieste della difesa – tra cui una nuova perizia fonica, antropometrica, e la ricitazione di testimoni chiave come la nipote Daniela Bellini – la Cassazione ha ritenuto tutto infondate o inammissibile, compreso il tentativo di minare la credibilità della ex moglie di Bellini, Maurizia Bonini, che aveva riconosciuto il marito nel video amatoriale girato in stazione il giorno dell’attentato.
Depistaggi e silenzi
Oltre alla responsabilità materiale, il processo ha fatto luce anche sui tentativi di depistaggio che hanno segnato l’inchiesta fin dagli anni ’80. La conferma della condanna a Segatel e Catracchia rafforza il quadro secondo cui la strage non fu solo un atto terroristico, ma anche un delitto politico coperto da apparati infedeli dello Stato. Nell’istruttoria si fa riferimento ai rapporti con la loggia massonica P2 e con settori deviati dei servizi segreti, coinvolti in un sistema che cercava di confondere, insabbiare e indirizzare altrove le indagini.
Le parole delle parti civili
“Siamo soddisfatti. Questa decisione rappresenta una vittoria della giustizia e della memoria”, hanno dichiarato gli avvocati delle parti civili, tra cui Andrea Speranzoni. “Abbiamo lavorato perché i familiari delle vittime potessero avere almeno una risposta giudiziaria, dopo decenni di processi e ombre”. I giudici della Cassazione, ha aggiunto Speranzoni, “hanno dato piena legittimità alla verità storica e giudiziaria ricostruita negli ultimi anni”.
Un processo lungo 45 anni
Dalla sentenza storica contro Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, fino a quella più recente per Gilberto Cavallini e ora Paolo Bellini, la giustizia ha disegnato un quadro sempre più chiaro: la strage fu opera del terrorismo neofascista, inserita in una strategia che mirava a destabilizzare il Paese. Restano ancora zone d’ombra, soprattutto sul mandante: secondo le ricostruzioni, fu Licio Gelli, capo della loggia P2, ad orchestrare tutto, con l’appoggio di servizi segreti deviati.
E mentre la giustizia si chiude su un altro nome, Bologna resta ferita, ma più vicina a una verità che non ha mai smesso di cercare.