
Diciotto anni, tre gradi di giudizio, due assoluzioni e una condanna definitiva. E ora, all’improvviso, una nuova ipotesi investigativa. La vicenda dell’omicidio di Chiara Poggi, uccisa il 13 agosto 2007 a Garlasco, sembra non trovare mai pace. Dopo dieci anni di carcere scontati da Alberto Stasi, ex fidanzato della vittima condannato in via definitiva nel 2015, le dichiarazioni di un testimone — raccolte negli ultimi mesi — riaprono interrogativi e creano nuovi squarci nel racconto giudiziario che sembrava ormai chiuso.
L’ignoto 3, le intercettazioni e il medico dei Cappa
Il testimone, ascoltato dalla difesa di Stasi e da un consulente di parte, avrebbe riferito di aver visto nei pressi della villetta della famiglia Poggi, la mattina del delitto, un uomo mai identificato. Elemento che ha innescato nuove richieste d’analisi sul DNA trovato sulle unghie di Chiara e su altri reperti, da tempo sotto sigillo. Intanto, nuove intercettazioni telefoniche tra Stefania Cappa, cugina della vittima, e un medico sostituto di base, sono finite agli atti. Proprio quel medico, Davide Ghigna, ha rotto il silenzio nei giorni scorsi, dichiarando pubblicamente di non aver voluto “assecondare tentativi di convincerlo a ricordare ciò che non ricordava”, aggiungendo: “Se c’è stato un tentativo di indirizzare i miei ricordi, non è andato a buon fine”.

La sensazione, netta, è che ci si trovi in un labirinto senza uscita, dove ogni nuova traccia apre piste e solleva ombre sul passato. A fare da eco ai dubbi, è stato anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che — nel corso di un intervento a Marina di Pietrasanta — ha commentato con toni netti: “Comunque finisca, finirà male. L’imputato condannato che si è fatto già 10 anni ora forse non è il colpevole. È emersa la seconda ipotesi, oggi potrebbe esserci un terzo. Dopo 18 anni un esame del Dna la vedo dura da dimostrare”.
Il ministro ha sottolineato la lentezza e la complessità di un’inchiesta che definisce “lunga, costosissima e dolorosa”, ricordando come Stasi fosse stato assolto due volte prima della condanna definitiva. Una riflessione amara, che tocca il cuore di uno dei temi più spinosi della giustizia italiana: la credibilità del sistema giudiziario, quando arriva a colpire con una sentenza irrevocabile per poi mostrare, anni dopo, possibili falle e alternative.
Una giustizia da riformare: la separazione delle carriere
Proprio dalla vicenda Garlasco Nordio è passato a parlare della riforma della giustizia, in particolare della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, recentemente approvata alla Camera e in arrivo in Senato il 22 luglio. “È stata una riforma sofferta – ha ammesso il ministro – ma la porteremo a termine entro questa legislatura. Spero anche che ci sia un referendum, è giusto che si esprima il popolo italiano”.
Una riforma che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe ridisegnare la struttura del Consiglio Superiore della Magistratura e separare in maniera netta le funzioni inquirenti da quelle giudicanti, mettendo fine a una commistione che da decenni genera critiche trasversali. Ma che, inevitabilmente, divide anche la stessa magistratura.
Nordio e i problemi del sistema carcerario
Nordio ha inoltre evidenziato la grave crisi del sistema carcerario, con 60.000 detenuti a fronte di una capienza di 50.000 e difficoltà croniche nella costruzione di nuovi penitenziari. “In Italia costruire un carcere è un’impresa diabolica”, ha ammesso, denunciando vincoli urbanistici, ambientali e politici che bloccano ogni iniziativa.
E sul caso Almasri, l’italo-palestinese accusato di terrorismo e la cui estradizione è al centro di un procedimento che coinvolge lo stesso ministro, Nordio ha ribadito: “Attendo con grande serenità e senza ansia la decisione del tribunale dei ministri. Quel che sarà sarà”.
Parole che suonano come un appello alla chiarezza. Per Garlasco, per la giustizia, per un sistema che ha bisogno di ritrovare il proprio equilibrio — tra rigore e garanzie, tra legalità e umanità.