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“A Gaza non ne ho visti tanti dimagriti!”. Bufera sul giornalista italiano

Pubblicato: 14/10/2025 11:23

Le parole pronunciate dal direttore di Libero Mario Sechi durante un recente intervento pubblico hanno acceso un’ondata di critiche e reazioni sui social, alimentando un acceso dibattito sull’informazione, sulla guerra in Medio Oriente e sul ruolo dei media occidentali nel raccontare il conflitto tra Israele e Hamas.
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Al centro della polemica, alcune affermazioni nette e senza filtri, che hanno generato un’immediata eco mediatica. Parlando della situazione umanitaria nella Striscia di Gaza, Sechi ha dichiarato: “A Gaza non ne ho visti tanti dimagriti. Pallywood racconta menzogne. Israele ha vinto bene, con il massimo della forza. Noi siamo dalla parte giusta”.
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Una frase che ha diviso il pubblico, suscitando indignazione in una parte dell’opinione pubblica e applausi tra chi invece condivide una lettura più netta del conflitto in corso. Ma l’impatto comunicativo del messaggio ha travalicato le opinioni, portando con sé una scia di reazioni digitali, accuse di negazionismo umanitario e richieste di chiarimento sul ruolo dell’informazione.

L’accusa a “Pallywood” e la difesa della narrativa israeliana

Uno dei passaggi più controversi dell’intervento di Sechi riguarda il riferimento a “Pallywood”, un termine utilizzato da alcuni ambienti pro-israeliani per definire presunte messinscene propagandistiche palestinesi, accusate di manipolare foto, video e testimonianze per ottenere l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale.

Con l’espressione “Pallywood racconta menzogne”, il direttore di Libero ha inteso denunciare, secondo la sua lettura, una campagna di disinformazione volta a criminalizzare Israele e a vittimizzare Hamas e i suoi sostenitori. In questo contesto, Sechi ha sostenuto che la vittoria militare di Israele sia avvenuta “con il massimo della forza”, e che il posizionamento dell’Occidente, “dalla parte giusta”, sia da rivendicare senza ambiguità.

Tali dichiarazioni, però, sono state percepite da molti come un’evidente minimizzazione della crisi umanitaria in corso a Gaza, dove le Nazioni Unite e numerose ONG denunciano da mesi gravi condizioni sanitarie e alimentari, blackout elettrici, ospedali al collasso e carenze di beni primari.

L’indignazione online: “Negazione del dolore umano”

A poche ore dalla diffusione delle frasi, i social network si sono trasformati in un campo di battaglia virtuale. Decine di giornalisti, attivisti, utenti comuni e personalità pubbliche hanno criticato duramente le parole di Mario Sechi, accusandolo di cinismo, parzialità e persino di disumanità.

Tra i commenti più ricorrenti, si legge: “Dire che a Gaza non ci sono persone dimagrite significa negare l’emergenza umanitaria che tutti gli organismi internazionali documentano” oppure “Le parole hanno un peso, e queste negano il dolore di civili intrappolati in una guerra che non hanno scelto”.

Non sono mancati nemmeno i riferimenti alla deontologia giornalistica, con alcuni utenti che si sono chiesti se sia accettabile per il direttore di un quotidiano nazionale adottare un tono così schierato e provocatorio in un contesto di conflitto. Altri, invece, hanno preso le difese di Sechi, condividendo la sua lettura e lodandone la franchezza e coerenza ideologica.

Il ruolo dell’informazione e i rischi della polarizzazione

Le dichiarazioni di Mario Sechi riaccendono un tema sempre più centrale nel panorama mediatico contemporaneo: l’equilibrio dell’informazione nei conflitti armati. Quando si parla di guerre, l’esigenza di raccontare la verità si scontra spesso con pressioni politiche, logiche di propaganda e la complessità dei fatti sul campo.

Nel caso del conflitto israelo-palestinese, la polarizzazione mediatica è ormai evidente. Da una parte, vi è chi denuncia i crimini di guerra israeliani e il dramma della popolazione civile palestinese, dall’altra chi sottolinea la necessità di una risposta dura contro il terrorismo di Hamas e rivendica il diritto di Israele alla difesa.

Sechi, da sempre voce schierata in favore di Israele, ha scelto di posizionarsi in modo netto, rinunciando volutamente alla neutralità. Ma nel fare ciò, ha anche contribuito ad alimentare una narrazione che, secondo molti osservatori, rischia di disumanizzare il nemico, ignorando la sofferenza delle vittime civili e riducendo il conflitto a una questione di “giusto” e “sbagliato” senza sfumature.

Nessuna rettifica, ma le polemiche non si placano

Ad oggi, Mario Sechi non ha rilasciato alcuna rettifica né ulteriori chiarimenti rispetto alle dichiarazioni che hanno fatto tanto discutere. Né il quotidiano Libero, che dirige, ha pubblicato precisazioni ufficiali.

Nel frattempo, il dibattito prosegue, spingendo alcuni esponenti del mondo accademico, giornalistico e politico a chiedere un confronto più serio e approfondito sui limiti della retorica bellica applicata alla narrazione giornalistica.

Molti si chiedono se non sia giunto il momento per i media italiani di riflettere sul modo in cui si parla del conflitto israelo-palestinese, e su quanto le parole possano alimentare tensioni, ferire sensibilità e legittimare narrazioni unilaterali in un contesto già carico di odio e violenza.

Un confine sottile tra opinione e responsabilità

Il caso Sechi evidenzia il confine sempre più sottile tra libertà di opinione e responsabilità editoriale. In un’epoca in cui l’informazione viaggia in tempo reale e i contenuti diventano virali nel giro di pochi minuti, ogni parola pubblica — soprattutto se pronunciata da chi dirige una testata nazionale — assume un peso specifico enorme.

In un clima già teso a livello internazionale, anche una singola frase può alimentare fratture, generare reazioni a catena e contribuire a formare — o deformare — l’opinione pubblica. E se è vero che il giornalismo deve saper prendere posizione, è altrettanto vero che non può smettere di riconoscere la complessità dei conflitti, soprattutto quando in gioco c’è la vita di migliaia di civili innocenti.

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