
Per la prima volta dopo oltre due anni, nessun ostaggio vivo è più nelle mani di Hamas. È una frase semplice, ma dal valore storico immenso, come sottolinea un editoriale di Haaretz: «Per la prima volta in oltre due anni, nessun ostaggio ancora vivo è nelle mani di Hamas». In un conflitto che ha devastato vite e terre, questa notizia segna una svolta: nei tunnel della Striscia di Gaza, martoriata da bombe e scontri, gli ostaggi israeliani ancora in vita sono stati tutti liberati. Gli ultimi venti prigionieri – quasi tutti giovani uomini, rapiti al Nova Festival – sono ora ricoverati negli ospedali del Paese, tra abbracci, controlli medici e prime testimonianze agghiaccianti. Dopo 738 giorni di prigionia, iniziano a emergere le storie di torture, fame, solitudine e terrore.
Elkana Bohbot, 36 anni, è uno dei giovani liberati. Per quasi due anni è rimasto legato a una catena in un tunnel buio, con pochissimo cibo. I miliziani, prima di rilasciarlo, lo hanno imbottito di alimenti per mascherare la denutrizione, causandogli un forte mal di stomaco. Ha raccontato di aver perso la cognizione del tempo e dello spazio, e di un giorno in particolare: l’anniversario di matrimonio. Chiese una doccia, la prima da mesi. Lo accontentarono, ma prima lo rasarono. Oggi ha dolori persistenti, ma è tornato da sua moglie Rivka e dal figlio Ram, che per mesi l’ha cercato in cielo con un binocolo giocattolo, sapendo che il papà sarebbe tornato in elicottero.
Matan Angrest, giovane soldato rapito da un carro armato al confine con Gaza, ha trascorso gli ultimi quattro mesi in isolamento, dentro un tunnel minuscolo. È stato operato alla mano senza anestesia, e i suoi rapitori lo consideravano un sorvegliato speciale per via del suo ruolo militare. Gli dicevano che Israele lo aveva abbandonato e che un nuovo attacco era in preparazione. Ha subito bombardamenti, visto i muri crollare, respirato macerie. Quando è tornato a casa ha scoperto che i nonni, sopravvissuti alla Shoah e che credeva morti, erano vivi. «Vederli è stata la gioia più grande», ha raccontato la madre.

Anche Nimrod Cohen ha passato 738 giorni sotto terra. Il padre, Yehuda, ha detto: «Nimrod è rimasto Nimrod». Più magro e pallido, ma con lo stesso modo di parlare, lo stesso spirito. Durante la prigionia, Nimrod ha capito che la sua famiglia e l’intero Paese non avevano mai smesso di lottare per lui. In quei tunnel affamati, la voce degli aguzzini e qualche radio gli davano frammenti di mondo. Ora che è tornato, suo padre non trattiene la rabbia: «Ora possiamo anche dire che Netanyahu deve farsi da parte. La guerra non è finita, ma la priorità erano loro: i prigionieri».
Il caso di Avinatan Or è tra i più strazianti. Durante il rapimento, ha visto la fidanzata Noa Argamani portata via su una motocicletta da due miliziani. Per due anni è rimasto completamente solo, affamato, senza sapere che Noa fosse stata liberata da un blitz dell’esercito israeliano. Ha perso fino al 40% del peso corporeo. Noa, sui social, ha scritto: «Ognuno di noi ha affrontato la morte innumerevoli volte. Ma oggi, dopo 738 giorni, muoviamo insieme i primi passi nello Stato di Israele». Una reunion che sembrava impossibile, e che ora è realtà.
Anche Evyatar David è uno dei volti simbolo della prigionia: nel video diffuso da Hamas, scavava la sua stessa fossa. Scheletrico, in ginocchio, prendeva una lattina da un miliziano. Secondo la famiglia, ha subito gravi abusi fisici e psicologici, e presenta carenze nutrizionali estreme. Il 7 ottobre 2023 era al Nova Festival con l’amico Guy Gilboa-Dalal, anche lui tra i liberati. Ma due loro amici sono morti nel massacro. Ai genitori di Evyatar, i terroristi dicevano che Israele era stato distrutto. Ma oggi possono finalmente dire: «Dopo due anni di sofferenza, è qui. Inizia un nuovo percorso».
Queste testimonianze parlano di condizioni disumane, violenze, solitudine. Molti ex prigionieri raccontano di aver perso peso, di essere stati legati per mesi, senza aria, senza igiene, senza sapere se fuori ci fosse ancora un mondo. Le bombe israeliane che cadevano intorno a loro erano un ulteriore terrore quotidiano, in una detenzione senza tempo. I carcerieri cercavano di spezzarli psicologicamente, privandoli di ogni certezza, incluso l’amore delle famiglie.
Nonostante l’inferno vissuto, molti dei ragazzi liberati mostrano una sorprendente forza mentale. Alcuni, come Matan e Nimrod, sembrano conservare una stabilità emotiva inaspettata. Altri, come Avinatan, appaiono visibilmente provati. La sofferenza ha lasciato segni profondi, ma anche una consapevolezza: non sono stati dimenticati. Il popolo israeliano, le famiglie, i comitati, non hanno mai smesso di chiedere: riportateli a casa.
Ora resta il compito più doloroso: recuperare i corpi di chi non ce l’ha fatta. Ma per la prima volta, non c’è più nessun ostaggio vivo sotto i tunnel. Il trauma collettivo resta, così come le ferite, politiche e personali. Ma queste venti liberazioni rappresentano una luce nell’oscurità: un ritorno alla vita, dopo 738 giorni di buio.