
La tragica fine di Nicoleta Rotaru, una donna di 41 anni, e il successivo processo che ha portato alla condanna all’ergastolo del suo ex compagno, Erik Zorzi, 43 anni, rappresentano un doloroso esempio di femminicidio e della complessa battaglia per la verità e la giustizia. L’omicidio, avvenuto il 20 agosto 2023 nella casa di Nicoleta ad Abano Terme (Padova), era stato inizialmente archiviato come suicidio, una messa in scena abilmente costruita da Zorzi. Solo l’instancabile determinazione dei legali dei familiari della vittima ha permesso di riaprire le indagini e svelare la brutale realtà. La prova chiave che ha ribaltato le sorti dell’inchiesta è stata un audio registrato di nascosto da Nicoleta sul suo telefono cellulare.
L’oscuro epilogo e la simulazione del suicidio
Erik Zorzi, dopo aver ucciso Nicoleta Rotaru, aveva tentato di sviare le indagini simulando un suicidio. La sua chiamata ai soccorritori li aveva condotti a trovare la donna riversa a terra nel bagno, con una cintura di pelle stretta alla nuca. I segni sul collo della vittima sembravano, almeno in una prima analisi, compatibili con l’atto auto-inflitto che Zorzi aveva cercato di far credere. Questa circostanza aveva inizialmente indotto gli inquirenti a chiudere il caso, archiviandolo come suicidio. L’ex compagno di Nicoleta era l’unico ad essere presente al momento dei fatti, e la sua versione, seppur lacunosa, era stata accettata. Tuttavia, la pista del suicidio nascondeva una verità molto più agghiacciante: un omicidio volontario, un femminicidio perpetrato da un uomo che non aveva accettato la fine della relazione. L’azione di Zorzi era volta a cancellare ogni traccia della sua responsabilità, rendendo la sua simulazione un atto di estrema freddezza e manipolazione.
La svolta grazie all’audio segreto
La svolta cruciale nelle indagini si è verificata grazie all’intuito e alla tenacia delle avvocate Roberta Cerchiaro e Tatiana Veja, che assistono i familiari di Nicoleta Rotaru. Non convinte dall’ipotesi del suicidio, hanno invitato i carabinieri ad analizzare a fondo lo smartphone della donna. È in questo dispositivo che è stata trovata la prova inconfutabile: una registrazione audio avviata di nascosto da Nicoleta stessa. L’analisi da parte dei carabinieri ha rivelato il crescendo di una discussione tra i due, seguita da una lotta che è culminata con la morte violenta della donna. Questo elemento sonoro ha squarciato il velo sulla messa in scena di Zorzi, trasformando un caso archiviato in un’indagine per omicidio con dolo aggravato. La registrazione, elemento oggettivo e brutale, ha smentito categoricamente la tesi del suicidio, portando all’arresto di Erik Zorzi nel marzo 2024, a diversi mesi di distanza dai fatti.
Il processo e la condanna all’ergastolo
Il processo si è svolto presso la Corte d’Assise di Padova. Erik Zorzi era imputato per omicidio con dolo aggravato dal legame di parentela che lo univa alla vittima. La difesa dell’imputato, cercando di sostenere la versione iniziale, aveva depositato in udienza preliminare una perizia che intendeva comprovare la compatibilità dei segni sul collo di Nicoleta con un atto suicida. Questa linea difensiva è stata però smontata dalla prova audio e dalle risultanze investigative successive alla riapertura del caso. La Corte d’Assise, riconoscendo la gravità dei fatti e l’evidenza della premeditazione o comunque della volontarietà dell’atto, ha emesso la sentenza di condanna all’ergastolo. Una pena esemplare che riconosce la piena responsabilità di Zorzi nel brutale femminicidio.
Le parti civili e la richiesta di giustizia
Un elemento fondamentale del processo è stata la costituzione di parte civile da parte dei familiari di Nicoleta e di importanti associazioni a tutela delle donne vittime di violenza. La madre e le sorelle di Nicoleta, così come le sue due figlie di 14 e 10 anni, hanno cercato giustizia in aula. Le due bambine, ora accolte in una struttura protetta, rappresentano le vittime indirette più fragili di questa tragedia. Al loro fianco si sono schierate due associazioni attive nella lotta contro la violenza di genere: il Centro Veneto Progetti Donna e Dire-Donne in rete contro la violenza. La loro presenza ha sottolineato la dimensione sociale del femminicidio, non solo un dramma privato ma una ferita aperta nell’intera società, ribadendo l’importanza di una risposta ferma contro ogni forma di violenza sulle donne.
L’esame sull’operato iniziale dei carabinieri
Un aspetto rilevante emerso dalla sentenza è la decisione della Corte d’Assise di trasmettere gli atti alla Procura Generale di Venezia. Questo passo è stato compiuto per valutare l’operato dei carabinieri di Abano e Montegrotto che si occuparono delle prime indagini. La riapertura del caso, avvenuta solo grazie all’intervento dei legali della famiglia, solleva interrogativi sulla correttezza e sull’accuratezza delle verifiche iniziali che avevano portato all’archiviazione come suicidio. La Corte ha ritenuto necessario un esame approfondito per accertare se vi siano state negligenze o errori che hanno rallentato il percorso verso la verità e la giustizia. Questo elemento aggiunge un ulteriore livello di complessità al caso, ponendo l’attenzione sulla necessità di formazione specifica e di maggiore sensibilità da parte delle forze dell’ordine nell’affrontare casi che, troppo spesso, nascondono dietro l’apparente suicidio la terribile realtà di un femminicidio.