
La possibile consegna a Kiev dei missili americani a lungo raggio Tomahawk è diventata, nelle ultime ore, uno dei dossier più delicati sul tavolo della Nato. La domanda che circola nei corridoi dello Stato Maggiore dell’Alleanza a Bruxelles è una sola: quali conseguenze potrebbe provocare uno spostamento così significativo dell’equilibrio militare sul fronte ucraino?
La risposta più frequente, e temuta, è la stessa: una reazione sproporzionata da parte di Mosca, fino alla possibilità di ricorrere alle armi nucleari tattiche.
Tomahawk all’Ucraina: cosa vuole davvero Kiev
Il tema è riemerso mentre la Germania ha consegnato all’Ucraina nuovi sistemi Patriot, fondamentali per difendere le città dagli attacchi missilistici russi. «Abbiamo rafforzato la nostra difesa aerea – ha dichiarato Volodymyr Zelensky – ringrazio Berlino e il cancelliere Friedrich Merz».
Una fornitura attesa da tempo, che rappresenta ossigeno indispensabile per proteggere la popolazione e le infrastrutture critiche. Ma ora Kiev chiede di più: la possibilità di colpire le basi da cui decollano droni, aerei e missili russi.
La disponibilità dei Tomahawk è stata già autorizzata dal Pentagono, ma manca ancora l’ultimo sì del presidente americano Donald Trump, che ha frenato: «Non sto davvero pensando di dare a Kiev quei missili», ha dichiarato durante il volo sull’Air Force One.
Nonostante la propaganda del Cremlino, le valutazioni dell’Alleanza non registrano progressi sostanziali delle truppe russe sul terreno. L’avanzata prosegue in maniera lenta e con perdite altissime, in un conflitto che da mesi vive un equilibrio instabile ma costante. È proprio questo equilibrio, per quanto drammatico, che preoccupa gli analisti: l’arrivo dei Tomahawk potrebbe romperlo.
Il timore ha un nome preciso: escalation nucleare.
Se Kiev ottenesse missili in grado di colpire in profondità, il rischio è che Mosca reagisca con testate tattiche, considerate «a basso potenziale» ma capaci di creare un precedente gravissimo. Anche un lancio dimostrativo su un’area disabitata costringerebbe la Nato a decidere una risposta: militare o politica, ma comunque inevitabile.
La preoccupazione si inserisce in un contesto globale già tesissimo: la Russia ha testato il drone subacqueo nucleare Poseidon, la Cina sta accelerando sull’arsenale atomico e gli Stati Uniti, nella dottrina annunciata da Trump, stanno valutando la ripresa dei test nucleari.
È uno scenario in cui ogni mossa pesa, ogni errore di valutazione può diventare irreversibile.
Dopo il mancato accordo per un nuovo incontro tra Trump e Putin, le parole del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov sono state interpretate come un segnale di distensione: «Non attaccheremo mai un Paese Nato».
Un’affermazione che, però, non basta a rassicurare chi, all’interno dell’Alleanza, teme che un singolo detonatore – diplomatico o militare – possa far esplodere una crisi più ampia.
Il quesito resta quindi aperto: consegnare ora i Tomahawk all’Ucraina significa offrirle uno strumento decisivo per difendersi o rischiare di innescare la fase più pericolosa del conflitto?
Una decisione che non è solo militare: è politica, strategica e, soprattutto, globale.


