Oggigiorno la lobotomia è considerata al mero della macelleria chirurgica, ma per decenni nel secolo scorso è stata ritenuta una pratica efficace e avanguardista, tanto da essere utilizzata da persone di ogni ceto come panacea contro i problemi di personalità, la schizofrenia e le intemperanze.
Il metodo, in realtà, suscitò da subito dubbi all’interno della comunità medica e uno dei suoi pionieri, il dottor Walter Freeman, decise ad un certo punto di pubblicare una serie di immagini di prima-e-dopo i trattamenti, allo scopo di mostrare quanto la lobectomia fosse un metodo di successo.
Quando la lobotomia era di moda
Walter Freeman si avvicinò alla lobotomia negli anni ’30: in Italia eravamo ancora molto lontani dalla legge Basaglia e negli Stati Uniti non erano stati immensi gli sviluppi nel trattamento delle patologie psichiatriche nei manicomi dai tempi in cui a descrivere gli asylum era Edgar Allan Poe, con la sua denunciante narrativa.
Freeman sviluppò le sue ricerche avvicinandosi alle tecniche di Egas Moniz, psichiatra portoghese che proponeva un metodo chirurgico cruento, fulmineo e colmo di problematiche. La lobectomia di Moniz prevedeva che con un attrezzo molto simile a un rompighiaccio si entrasse nel cervello del paziente, spesso sveglio, attraverso i bulbi oculari (per la precisione, sfruttando i condotti lacrimali).
Il “rompighiaccio” veniva fatto arrivare fino al lobo frontale del paziente e cui veniva mosso energicamente allo scopo di distruggere le connessioni tra il lobo e il talamo. Le conseguenze potevano andare dalla morte del paziente alle lesioni interne) lasciare un pezzo di “rompighiaccio” all’interno del cranio.
La storia di Rosemary
Per effettuare l’operazione Freeman e Moniz impiegavano meno di 10 minuti e questo rendeva l’operazione molto popolare.
In realtà, le conseguenze si sono rivelate spesso orribili: è il caso ad esempio di Rosemary Kennedy, sorella di due Presidenti degli Stati Uniti, che venne lobotomizzata a 23 anni su decisione del padre e di nascosto dal resto della famiglia. La ragazza fu ridotta a un vegetale e passò il resto della vita in una casa di cura. Anche quando le conseguenze non erano così debilitanti, in realtà, i danni erano enormi: quello che accadeva era che spesso gli sbalzi d’umore, i problemi caratteriali e le intemperanze sparivano perché nel lobo frontale del cervello risiedono le funzioni che controllano la personalità, quindi il paziente perdeva la capacità di provare emozioni e stati d’animo, il che lo rendeva simile a un vegetale dal punto di vista emotivo.