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Cannabis light, 10mila rivenditori nel caos: la sentenza della Cassazione non chiarisce la materia

Pubblicato: 16/07/2019 16:07

Sono state rese pubbliche l’11 luglio le motivazioni della sentenza emessa il 30 maggio scorso della Cassazione che aveva gettato nel panico circa 10mila titolari di negozi in cui viene venduta la cannabis light. Tuttavia, il tema appare ancora intricato, nonostante sia stato ribadito il divieto di vendere cannabis light.

No alla vendita di cannabis light

La Suprema Corte ha affermato che non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016 la vendita di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione di cannabis sativa L. La Cassazione afferma che il problema non è individuare la percentuale di THC contenuta nella cannabis light e di conseguenza creare uno spartiacque tra un tetto consentito di THC e uno non ammesso, ma se nel singolo caso la sostanza venduta abbia o meno “efficacia drogante. Di fatto, la Cassazione chiarisce in questo modo che appellarsi al fatto che la cannabis light contenga una percentuale di THC (il principio psicotropo della cannabis) inferiore allo 0,6% non rappresenta di per sé un’autorizzazione alla commercializzazione, come avviene per la coltivazione della canapa.

La Corte ha messo nero su bianco quanto segue: “Ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l’idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante“. In sostanza, per la Suprema Corte non è ammessa la vendita di cannabis light perché, secondo la legge 242 del 2016, è legale solo ricavare dalla canapa coltivata “fibre e carburanti, ma non hashish e marijuana“.

Sul lastrico 10mila persone?

La Cassazione ha indicato a grandi linee come interpretare la legge 242 del 2016 specificando quali tipologie di prodotti derivati dalla canapa possono essere commercializzati: “Alimenti e cosmetici, semilavorati quali fibra, polveri e cippato, oli o carburanti per forniture alle industrie e alle attività artigianali, il materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati, le coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati o destinate al florovivaismo“.

Dunque la commercializzazione di cannabis light sarebbe reato da inscrivere penalmente nell’ambito delle disposizioni inserite nell’articolo 73 Testo Unico Stupefacenti che vieta “la commercializzazione di foglie, infiorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente“, anche se la Suprema Corte sembra affermare la necessità di valutare ogni caso in modo individuale quando si appella al giudice affinché “verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante“.

Infine, la sentenza auspica anche un intervento legislativo finalizzato a regolamentare questo mercato: “Resta ovviamente salva la possibilità per il legislatore di intervenire nuovamente sulla materia (…) così da delineare una diversa regolamentazione del settore che involge la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali“.