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Massimo Bossetti, l’accusa dell’avvocato Salvagni: ci fu “un giustizionalismo forcaiolo”

Pubblicato: 09/12/2020 10:18

Dal novembre 2018 Massimo Bossetti è considerato, in via definitiva, l’unico responsabile della morte di Yara Gambirasio. Tre volte colpevole, a livello processuale: condannato all’ergastolo in primo grado, confermato in appello, definitivamente giudicato in Cassazione.

La morte di Yara Gambirasio, avvenuta nel 2010, fu tanto spietata e atroce da smuovere un sentimento di terrore e panico negli abitanti della sua zona di residenza (Yara abitava a Brembate di Sopra, nel bergamasco) e forte indignazione nell’opinione pubblica. L’arresto di Massimo Bossetti, nel 2014, fu accolto con un sospiro di sollievo da parte di molti: il mostro è stato preso, i bambini ora sono al sicuro. A dare l’idea che ciò fosse accaduto contribuì anche un tweet dell’allora ministro Alfano, che scrisse: “È stato finalmente arrestato l’assassino di Yara Gambirasio”. L’affermazione, data ad indagini ancora in corso, fu criticata anche dalla Procura, che puntualizzò che avrebbe preferito riserbo sulla questione. La giustificazione di Alfano fu emblematica ed esplicativa dei sentimenti più imperanti in quel momento: “L’opinione pubblica aveva diritto di sapere e di essere rassicurata e ha saputo”.

Da allora sono passati 6 anni. Diversi processi, infinite udienze ed innumerevoli dibattiti nei salotti televisivi. L’opinione pubblica, nel tempo, si è divisa: tra chi ritiene che Bossetti sia colpevole senza se e senza ma, e chi invece crede nella sua innocenza. Tra questi ultimi ci sono gli avvocati di Massimo Bossetti e The Social Post ha intervistato uno di loro, Claudio Salvagni, che ha parlato di “giustizionalismo colpevolista e forcaiolo” ed ha spiegato perché, secondo lui, Bossetti merita di poter rivendicare la sua innocenza.

La giostra dei reperti: perché non vengono riesaminati

Massimo Bossetti è in carcere a Bollate ormai da anni, e da anni ripete sempre la stessa cosa: di essere innocente, e che bisogna continuare a cercare il “vero” assassino di Yara Gambirasio. Il muratore di Mapello continua a dire di non voler uscire se non prima che la sua innocenza sia provata, e dice anche come vuole che sia provata, ovvero permettendo che il Dna trovato sul corpo di Yara venga riesaminato. “Dal giorno dell’arresto lui ha rivendicato la sua innocenza” ci spiega l’avvocato Salvagni “ed ha sempre chiesto di poterla dimostrare con una perizia del Dna, ed è l’unico modo che poteva essergli concesso per difendersi. La sua disperazione non è solo quella di stare in carcere, ma quella di rimanerci senza avere un orizzonte, una speranza, perché sa di non potersi difendere”.

Il team legale ha chiesto di poter vedere i reperti innumerevoli volte, dall’arresto di Bossetti: all’epoca dell’udienza dibattimentale, nel primo grado, in fase d’appello e poi oltre. Quello che invece è successo è che quei famosi slip, quei vestiti lacerati trovati sul corpo della piccola Yara, non sono mai passati sotto i loro occhi: “Noi non abbiamo visto nessun reperto, abbiamo dovuto fare un atto di fede e dire ok, questi reperti esistono. Ma non li abbiamo mai visti”. L’atto di fede non è però incondizionato, perché di dubbi Salvagni e colleghi ne hanno parecchi: “Abbiamo evidenziato che la consulenza effettuata dal Ris sul Dna nucleare presentava ben 261 anomalie. A fronte di queste e della incredibile mancanza del Dna mitocondriale abbiamo sempre chiesto di poterlo esaminare, perché è una cosa stranissima ed inspiegabile in natura”.

La richiesta dei reperti: la tesi dei legali

L’ultima richiesta di esame dei reperti risale alla fine del 2019, ed era stata accettata: una luce in fondo al tunnel per Bossetti ed i suoi avvocati. Nel corso del 2020 il Presidente della Corte d’Assise di Bergamo aveva confiscato i reperti facendoli divenire proprietà statale proprio in ottica di nuove analisi. Poi, recentemente, il ribaltone: la domanda di riesame è stata giudicata inammissibile su basi incomprensibili per i legali, che null’altro hanno potuto fare se non presentare un nuovo ricorso in Cassazione.

Cosa c’è dietro il ripetuto rifiuto a permettere un nuovo test sul Dna e sui reperti? Per l’avvocato Salvagni, la situazione è chiara: Loro hanno messo in cassaforte un risultato, sbandierando questo processo come ‘processo del secolo’. Anche per quanto riguarda l’indagine scientifica, che è stata un’indagine condotta a tappeto come non se n’è mai viste in Italia, forse nel mondo”. 

L’indagine record per trovare Ignoto 1

Fu effettivamente così: per cercare il mostro, presto denominato Ignoto 1, si smossero energie e forze ineguagliabili. Nella zona di Brembate i cittadini vennero interpellati a centinaia al fine di trovare qualcosa: una chiacchiera, una voce, un sospetto, una goccia di sangue che avesse familiarità con chi aveva aggredito Yara. Ci furono anni di indagini, poi la proclamazione di un grande trionfo dal punto di vista investigativo: Ignoto 1 sembrava introvabile, e invece il team di esperti del caso ce l’aveva fatta. 

Secondo Salvagni, nessuno vuole tornare indietro dopo tanta fatica e l’acclamazione dell’opinione pubblica, tantomeno per un muratore di Mapello: “Alla fine, un muratore in carcere condannato anche sulla scorta di un giustizialismo colpevolista e forcaiolo ha reso tranquille tutte quelle persone che erano convinte di aver preso il vero assassino. In più ha messo al riparo tutti coloro che hanno fatto carriera e preso encomi da possibili debàcle e fallimenti”.

Il rifiuto a un nuovo test: le motivazioni

La domanda a questo punto sorge spontanea: come è stata giustificata la negazione di nuovi test del Dna, in tutti questi anni? Con motivazioni diverse in momenti diversi, a quanto pare. Dapprima, in dibattimento, viene spiegato che era già stato fatto di tutto e di più e che altro non serviva: “In dibattimento la motivazione della non concessione era che in fasi di istruttoria sul punto si era già stati esaustivi”. In appello, le cose cambiano: viene spiegato che il materiale è esiguo e si è esaurito, la motivazione viene accettata, la sentenza passa in giudicato e la Cassazione segue questa tesi. Eppure Salvagni non dimentica le parole che Giorgio Casali, consulente della procura di Bergamo, gli disse durante il processo: “Casali aveva confermato che nei laboratori del San Raffaele erano conservate tutte le aliquote quindi era possibile fare ulteriori analisi. Però, aveva aggiunto: ‘Volendo’. Bisogna volerle fare, le indagini”.

Colpevolisti e innocentisti

Se per tutti all’inizio Bossetti era il mostro, a distanza di anni molti hanno cambiato idea, nel contesto dell’opinione pubblica: “Quando siamo partiti avevamo il 99,9% delle persone schierate contro: era per tutti il mostro. Poi, con un’informazione oggettiva, continua e seria fatta da noi avvocati e da alcuni giornalisti, la gente ha potuto capire cosa stava accadendo nell’aula di giustizia. Così, il pubblico si è spaccato: da una parte i colpevolisti irriducibili e dall’altra coloro che leggendo e approfondendo con spirito critico hanno capito che non c’era proprio niente nei confronti di quest’uomo, se non un mezzo Dna farlocco che aspettava di essere riaccertato”. Salvagni ne è certo: Se ciò fosse stato fatto Massimo Bossetti avrebbe fatto qualche mese di carcere e non di più”.

Quod non est in actis, non est in mundo: Ciò che non è agli atti, non è nel mondo. Questo è un principio fondamentale del diritto penale, e chiarisce come il giudizio debba dipendere solo ed esclusivamente da ciò che è stato messo agli atti e che ciò che accade in altri contesti, comprese le lotte mediatiche, non devo avere alcun peso in fase di sentenza. Nel caso di Bossetti, nella sentenza di Cassazione, i giudici non hanno risparmiato invece una chiara accusa a come la questione era stata gestita a livello mediatico, attribuendo una certa responsabilità ai media ed ai salotti televisivi, nei quali secondo la Corte si sarebbe dato spazio a congetture illegittime e ad un “processo mediatico” con particolare esposizione delle tesi della difesa. Nel processo per la morte di Yara Gambirasio (mai abbastanza nominata, e che invece in questa storia appare spesso come personaggio non protagonista della sua stessa agonia) la dimensione mediatica ha sempre avuto un ruolo importante, ma non solo per la difesa: si pensi alla decisione di filmare e gettare in pasto alle belve il video del muratore di Mapello, prelevato al cantiere a cui lavorava, ammanettato e circondato dai flash, per la soddisfazione e l’ingordigia di un popolo assetato di vendetta contro chi, secondo le autorità, aveva massacrato senza motivo apparente una delle figlie del popolo italiano.

Marita Comi, primo “Pm” contro il marito

Se ora il team legale, la famiglia di Bossetti e buona parte dell’opinione pubblica italiana credono nell’innocenza del muratore di Mapello, non è sempre stato così, in particolare nel contesto della cerchia ristretta degli affetti. La più critica in un primo momento fu proprio lei: Marita Comi, la moglie. “Se veramente hai fatto qualcosa, voglio che me lo dici adesso!”, la si sente chiedere senza possibilità d’appello in sede di colloquio, in carcere, al marito. A Marita Comi, in un primo momento, non torna niente: le istituzioni del suo Paese hanno ammanettato il padre dei suoi figli e lo accusano, con grande certezza, di essere un aggressore di bambine. Lei vuole andare fino in fondo e la grazia per lei non è né ovvia né dovuta. La donna inizia così un processo a livello coniugale, e come moglie è il più duro dei procuratori: “Marita ha inizialmente tenuto un atteggiamento da Pm” spiega Salvagni. “Ha dei figli, lei voleva capire se quello che le stavano raccontando di suo marito poteva avere un qualche fondamento o no. Quindi ha scavato, ha domandato, ha cercato di farsi una sua idea. Le persone semplici hanno comunque fiducia nell’operato degli inquirenti e nella magistratura e quindi pensano: ‘se ti hanno messo in carcere, qualcosa ci sarà’ “.

Marita Comi, in breve tempo, ha però chiuso il suo processo personale con una piena assoluzione e da allora è spalla sostenitrice del marito, che non ha mai abbandonato. “Lei ha cercato di capire ma la sua convinzione è granitica, non c’è dubbio”, racconta Salvagni.

Se il Dna non è di Bossetti

E adesso, cosa potrebbe succedere? Se mai ci sarà un riesame dei reperti da parte della difesa e il Dna non risultasse di Bossetti, per Salvagni sarebbe l’inizio di una nuova fase: “Attraverso la revisione si potrebbe arrivare all’assoluzione di Bossetti e a quel punto la procura potrebbe continuare la ricerca del vero colpevole”.

Negli ultimi scambi epistolari di Bossetti, la ricerca del “vero colpevole” è sempre stato un punto fondamentale: “Yara non ha avuto giustizia” ha detto il muratore di Mapello poche settimane fa, per tramite del suo legale. E anche per molti altri, il vero aggressore di Yara non è mai stato davvero individuato.