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Le parole del 2020

Pubblicato: 28/12/2020 07:57

Il prestigioso dizionario Collins, il più usato della lingua inglese, ha decretato lockdown come parola dell’anno, registrando più di 250 milioni di utilizzi.

Termine non accolto da tutti in Italia, e che qualche penna autorevole ha proposto di sostituire con confinamento o clausura. Ma come ho già accennato in un altro articolo, anche se ognuno di noi ha totale libertà linguistica per quanto riguarda le sue idee e le proprie produzioni scritte, non possiamo alzarci una mattina e usare una parola o inventarcene una, solo perché a noi piace di più. La lingua non funziona così e se vogliamo essere compresi da più persone possibili e non vogliamo escluderci dal resto del mondo, bisogna stare alle regole del gioco e seguire delle linee prestabilite.

Sei brutto come un 2020!

Come avrete capito, inevitabilmente le parole più usate in questo annus horribilis hanno a che fare con la pandemia. Pandemia è una delle parole che abbiamo imparato a conoscere agli inizi o quasi di questo incubo, che descrive un fatto di rapida diffusione, una malattia che coinvolge tutti i paesi del mondo.

Anche solo il disgraziato anno, il 2020, che molto probabilmente pareggerà linguisticamente i conti con il celeberrimo ’48 (il 1848, anno dei moti risorgimentali) e che forse in futuro ritroveremo sotto forma di improperi, di disgrazie e di maledizioni, in frasi del tipo: È successo un 2020! oppure Sei peggio di un 2020! o ancora Sei brutto come un 2020!, a quanto riportano fonti autorevoli, in Inghilterra è già una realtà: il 2020 viene usato a mo’ di ingiuria.

Una vita divisa in fasi e in colori

Ma andiamo per ordine, il virus (parola latina che significa veleno) ha fatto la sua comparsa ufficialmente, anche se non sembra così, nel dicembre 2019 a Wuhan. Noi lo abbiamo conosciuto prima con il nome generico di Coronavirus o nuovo Coronavirus, termine “nuovo” solo per i profani (esiste dagli anni Sessanta), che precede la formazione della più precisa sigla Covid-19 (CO-rona VI-rus D-isease 2019), sigla scelta dall’OMS l’11 febbraio 2020, che dovrebbe essere preceduta da un articolo femminile perché disease significa malattia, la malattia da Coronavirus, ma che i parlanti fin da subito hanno utilizzano al maschile pensando al virus e non alla malattia; e visto che l’uso vince sempre, entrambe le possibilità sono corrette.

Abbiamo imparato a dividere la nostra vita in fasi (fino ad ora sono tre) e in quei colori (giallo, arancione, rosso e forse con l’aiuto del vaccino, un giorno anche verde) che hanno diviso in livelli di rischio la nostra cara Nazione; e ad avere il costante timore di nuovi possibili ritorni del virus, le famose ondate, che possono ripresentarsi più violente delle precedenti, come è successo con questa seconda ondata.

Ti ho tamponato!

Abbiamo imparato a lavorare in smart working o lavoro agile e gli studenti hanno imparato, non senza difficoltà, a frequentare la Dad (didattica a distanza).

Abbiamo temuto e temiamo il verbo tamponare, al quale, oltre ai due significati che già conoscevamo, se n’è aggiunto un terzo: si possono tamponare le ferite per arrestare un’emorragia; si può tamponare per distrazione o incapacità un’auto che ci precede; mentre oggi, un tamponato è qualcuno che si è dovuto sottoporre al fastidioso esame del tampone – magari dopo una lunga e noiosissima coda al drive-in, fatta non certo per guardare un film romantico con la sua dolce metà ‒ per sapere se ha contratto il Coronavirus oppure no e per scongiurare una possibile positività.

Io penso positivo

Anche la positività, come atteggiamento mentale è stata surclassata dalla sua parte oscura, dall’altra faccia del significato. Se ci si vuole fare terra bruciata intorno e non si sopportano le persone, dichiararsi apertamente positivi, oggi, potrebbe essere la soluzione a tutti i vostri mali. Chi ha avuto la disgrazia di essere risultato positivo al tampone, anche se asintomatico (chi non ha nessun sintomo, ma ha ugualmente contratto il Coronavirus: l’alfa privativo iniziale rovescia il significato di un termine) ha dovuto fare un periodo di quarantena o ha dovuto quarantenarsi, cioè restare in isolamento forzato per un periodo non di quaranta giorni, come il significato originario del termine racconta, ma solo di quattordici giorni.

E sia la quarantena sia l’isolamento, come ben sappiamo, non permettono il contatto né con estranei né con i nostri amati e inavvicinabili congiunti, che come noi si sono dovuti difendere con il distanziamento sociale, con le mascherine e il disinfettante, per scongiurare il possibile contatto con le pericolose goccioline di saliva o droplet di un contagiato.

Assembramenti o assemblamenti

Abbiamo provato a non creare assembramenti (non sempre riuscendoci), termine anche questo che in principio a qualcuno ha dato qualche problema, non solo perché si è visto limitare la propria libertà dalla dittatura sanitaria, ma perché quel nuovo termine ‒ che in realtà, come la maggior parte dei termini che ci appaiono “nuovi”, sono già stati usati in passato, o vengono usati da una ristretta cerchia di parlanti (vedi tecnicismi) ‒ è stato riportato da qualcuno come assemblamento, con la “l”, tanto da scatenare l’ironia del web con associazioni del tipo: provenienza cinese del virus = uso logico di “l” al posto di “r”.

Riguardo a questo proposito, inizialmente la pandemia, presa sottogamba da politici, giornalisti e purtroppo anche da virologi di fama mondiale, veniva chiamata semplicemente l’influenza cinese (L’OMS sconsiglia di usare nomi che richiamano a precise aree geografiche, per non dare vita a fenomeni di violenza e di razzismo), e per questo per un po’ di tempo è stata percepita come una questione lontanissima da noi e che non ci riguardava, facendoci abbassare la guardia; magari in un mondo remoto e non globalizzato avrebbe potuto egoisticamente non riguardarci, ma non in un mondo ormai così piccolo e visitabile con estrema facilità e soprattutto non nell’anno più funesto tra i bisesti(li).