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Cina, perché vaccinazioni e crisi demografica possono spiegare i lockdown come quello di Shanghai

Pubblicato: 29/04/2022 10:20

Cibo e acqua che faticano ad arrivare, interi quartieri residenziali in rivolta, persone trascinate a forza per essere traferite nei centri d’isolamento, famiglie separate. Queste le immagini che arrivano da Shanghai a due anni dallo scoppio della pandemia, una città – come altre parti del Paese – ancora alle prese con le politiche di confinamento nonostante poco meno di 3 mila nuove infezioni al giorno (su 25 milioni di abitanti) e un tasso di mortalità tra i più bassi del mondo.

La Cina, tuttavia, sta affrontando la peggior ondata dai tempi del primo lockdown di Wuhan, dopo essere stato il primo Paese al mondo a non registrare nessun caso di morte da Covid. Questo fino a febbraio scorso, quando l’improvviso aumento di contagi ha costretto il governo centrale ad imporre nuove misure di lockdown non solo a Shanghai, ma anche nell’hub tecnologico di Shenzhen e nel nord-est del Paese (importante area manifatturiera), con nuovi test di massa effettuati anche Pechino.

Chi è vaccinato in Cina?

Una prima spiegazione per la re-imposizione della politica di “tolleranza zero” da parte del governo, considerata esagerata da molti osservatori, potrebbe risiedere nel basso tasso di vaccinazione registrato non solo tra gli over 80, ma anche tra le persone oltre i 60 anni.

Secondo i dati della China Health Commission, il 51% degli ultraottantenni ha ricevuto due dosi e solo il 20% ha ricevuto la dose booster, mentre dei 264 milioni cinesi di età superiore ai 60 anni 52 milioni devono ancora essere completamente vaccinati. Nella fascia 70-79, la percentuale dei ‘doppi vaccinati’ risale all’86%, mentre scende al 48% tra chi ha ricevuta la terza dose. Una situazione simile a quella registrata ad Hong Kong, dove il 63% degli ultraottantenni non sono ancora vaccinati.

I numeri non sono casuali, e non rispondono solo alla riluttanza dei cinesi verso le vaccinazioni. Sono il risultato della strategia del governo il quale, sin dall’inizio della pandemia, ha preferito mettere in salvo la ‘parte produttiva’ della popolazione, ora in piena crisi demografica. Zeng Yixin, vice direttore della Commissione sanitaria nazionale, ha affermato che il Paese sta cercando “di rafforzare il tasso di vaccinazione degli anziani”, con i funzionari che “stanno contattando i gruppi più sensibili e le case di cura per parlare con le persone delle preoccupazioni sulla sicurezza dei vaccini e del loro impatto su eventuali malattie sottostanti”.

Meglio tardi che mai. Ma a causa della politica di “zero-tolerance” sul Covid, Pechino sta affrontando un forte rallentamento economico parallelo ad un rialzo dei prezzi generale con effetti domino registrati altrove, visto che la Cina è un’arteria fondamentale per l’economia globale. Le attività manifatturiere e dei servizi hanno toccato i minimi dall’inizio della pandemia nel mese di marzo, con “una varietà di fattori che aggravano la pressione al ribasso sull’economia cinese e sottolineano il rischio di stagflazione“, ha affermato Wang Zhe, economista senior di Caixin Insight Group. Tutto questo, mentre il Fondo Monetario Internazionale ha già rivisto al ribasso le proiezioni per il Pil globale nel 2022 e 2023 citando il forte aumento dei prezzi energetici dovuto alla guerra in Ucraina e i problemi sulle catene di approvvigionamento.

La crisi demografica in Cina

La Cina si trovava in una forte crisi demografica ben prima del coronavirus, ma nel biennio pandemico il calo delle nascite è stato ancora più pesante. Secondo il National Bureau of Statistics, il tasso di natalità è sceso di poco meno del 30% tra il 2019 e il 2021, la diminuzione più ampia dalla Grande Carestia che ha colpito il Paese tra il 1959 e il 1961, con solo solo 10,6 milioni di bambini nati in Cina nel 2021, il numero più basso mai registrato da quando il Partito Comunista ha preso il potere nel 1949.

Come mostra uno studio della rivista scientifica britannica Lancet riportato dal Financial Times, se non verranno prese misure drastiche per invertire questa tendenza, la popolazione del Paese potrebbe dimezzarsi dalle attuali 1,4 miliardi di persone alle 730 milioni entro il 2100, creando un problema socio-economico per Pechino: come pagare la pensioni in aumento e le spese mediche degli anziani con i contributi fiscali di una popolazione in età lavorativa in continuo calo.

La crisi delle nascite che sta affrontando la nazione, secondo molti analisti, non è nuova. Ma nasce dalle misure di controllo della popolazione messe in atto nel 1980, quando è stato imposto un figlio per coppia per bilanciare la crescita della popolazione con il tasso dell’attività economica. La politica del figlio unico è stata abbandonata definitivamente nel 2016, ma non ha contribuito ad invertire la rotta. Da sei anni a questa parte, infatti, il numero di nuovi nati è diminuito ogni anno.

Molte coppie hanno paura di avere figli per le rigide misure di lockdown imposte dalla Cina“, ha affermato al Financial Times Yi Fuxian, senior scientist presso l’Università del Wisconsin, mentre Rory Green, chief economist per la cina di TS Lombard, “il calo delle nascite si tradurrà in un minor numero di lavoratori e consumatori che contribuirà alla crescita economica”.

A questo si aggiunge un aspetto sociale denunciato sempre al FT da Lu Pin, un’attivista femminista cinese, secondo la quale le politiche pensate per aumentare la natalità attraverso incentivi in denaronon riescono ad affrontare il motivo per cui le donne sono riluttanti ad avere più figli”. Per l’attivista è necessario affrontare “la discriminazione sul posto di lavoro contro le giovani madri prima di dare alle persone la certezza che non avrà un impatto sulla loro carriera“, ma questo tipo di mentalità “non può essere cambiata dall’oggi al domani, e solo dalle politiche del governo”.

Ultimo Aggiornamento: 29/04/2022 20:49