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Giorgia Meloni e i governi tecnici visti come male assoluto: ma la Storia racconta altro

Pubblicato: 05/11/2023 09:06
Giorgia Meloni e i governi tecnici visti come male assoluto: ma la Storia racconta altro

Un premier forte, anzi fortissimo, perché scelto dal popolo. Insieme al no, anzi al divieto, di ricorrere a personalità autorevoli di fronte a possibili crisi di governo in fasi particolarmente difficili per la vita del Paese. La modifica costituzionale promossa dal centrodestra, e benedetta dall’attuale premier Giorgia Meloni come “la madre di tutte le riforme”, muove i primi passi di un lungo iter procedurale, destinato a condizionare il dibattito politico – e soprattutto mediatico – dei prossimi mesi. Che verosimilmente vedrà le forze di maggioranza agitare come clave, esercizio muscolare già scattato, gli spettri del ribaltone e del governo tecnico come quei mali assoluti che hanno azzoppato l’Italia, prima che le elezioni del 2022 premiassero la coalizione di centrodestra.
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Ma nella storia italiana è accaduto proprio questo? E, nel confronto tra i risultati prodotti da un governo di emergenza del passato e quelli confezionati da quello in carica, è il secondo a “vincere” alimentando la retorica del dopo di noi mai più? Vediamo. La riforma varata ieri dal Consiglio dei ministri (di modifica dell’art. 94 della Costituzione) fissa in primis i compiti – riducendoli – del presidente della Repubblica, che deve soltanto vidimare l’incarico al presidente del Consiglio “scelto dal popolo” nelle urne. In seconda battuta, in presenza di crisi con sfiducia alla squadra del premier, «può conferire l’incarico di formare il governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia».

La norma contro i ribaltoni che porta al voto continuo

Tradotto; nella stessa legislatura, se passa la riforma, non ci saranno più di due primi ministri: «Qualora il governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del presidente del Consiglio subentrante, il presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere». Questa parte della riforma è la madre di tutta la recriminazione ideologica del centrodestra sulle scelte degli italiani al voto, e dell’operato degli ultimi presidenti della Repubblica, negli anni recenti. È infatti questa la norma imposta contro i nefandi ribaltoni e che impedisce qualsiasi governo tecnico. Perché in caso di crisi di quello in carica – quello scelto dal popolo – il nuovo incaricato dal Capo dello Stato dovrà essere un parlamentare. Di più: uno dello stesso schieramento che ha vinto le elezioni. Se costui fallisce, ed è ipotizzabile viste le tante riserve espresse sul punto da numerosi costituzionalisti, si tornerebbe tutti a votare.

Giorgia Meloni e l’idiosincrasia per i governi tecnici che non ha senso

Ma l’equazione “governo tecnico uguale sciagura per il Paese” che sta alla base del teorema di questa destra, il mantra che ha portato al successo elettorale dello scorso anno dopo l’esperienza Draghi, dimostra di avere il passo corto. Prendiamo il bilancio del “governo di transizione” (il termine “tecnico” era meno in auge) guidato dall’aprile 1993 al maggio 1994 da Carlo Azeglio Ciampi, chiamato dal presidente Oscar Luigi Scalfaro in una fase di difficile crisi istituzionale ed economica: era appena caduto il governo Amato retto dalla coalizione Dc-Psi-Psdi–Pli, sull’onda del referendum che aveva abolito il finanziamento pubblico dei partiti (nel dopo Mani pulite). Servivano risposte urgenti di fronte agli esiti del referendum elettorale e ai conti dello Stato, caratterizzati da un forte rallentamento della crescita economica. Quali furono i risultati?

Con Ciampi, primo non parlamentare a guidare un governo italiano, e la sua formazione di indipendenti fu applicata la nuova legge elettorale, approvata dal Parlamento (furono rideterminati i collegi e le circoscrizioni elettorali) profondamente rinnovatosi tra la 11° e la 12° legislatura. Sul piano economico si affrontò lo spinoso tema della lotta all’inflazione con lo storico accordo governo-parti sociali del luglio 1993 (revoca di ogni meccanismo di indicizzazione; varo del tasso di inflazione programmata come parametro per i contratti). Fu poi avviata la privatizzazione di diverse aziende pubbliche, ampliando il quadro normativo e realizzando le prime dismissioni (tra cui quelle del Credito italiano, della Banca commerciale italiana, dell’Imi). Il tutto, politicamente condivisibile o meno, nell’arco di tredici mesi.

I primi 13 mesi di governo Meloni: molti decreti legge e numerose promesse mancate

E’ lo stesso arco temporale raggiunto in questi giorni dall’attuale governo retto dalla Meloni. Ebbene, quanti risultati ha prodotto per gli italiani? Ci si aspetterebbe un numero infinitamente superiore a un governo tecnico, come quello di Ciampi (il confronto si porrebbe anche con 13 mesi di governo Monti o altrettanti di quello Draghi), tale da rivendicare come questione vitale per la Repubblica una riforma della Carta costituzionale. O no?

Su questo responso le attuali forze di minoranza, seppur incapaci di scalfire la marcia dell’attuale governo, sfornerebbero un corposo elenco di promesse mancate e di misure inefficaci (dal provvedimento contro i rave-party a quelli sull’immigrazione – decreto Cutro – e sui cartelli per i prezzi dei carburanti ecc.); ma sarebbe sufficiente ricordare che in 13 mesi il governo Meloni ha varato ben 45 decreti legge, ponendo spesso la fiducia: una media che nessun altro governo ha tenuto nella storia. E sì che i decreti dovrebbero essere usati solo «in casi straordinari di necessità e urgenza», ma più della metà delle leggi entrate in vigore con questo governo erano inizialmente decreti, soltanto il 19% erano leggi ordinarie di iniziativa parlamentare. Va aggiunto che i decreti legge ingolfano i lavori del parlamento (un organo sempre meno efficace tra quelli dell’ordinamento), che dopo la loro approvazione da parte del governo ha 60 giorni per convertirli in legge: con il governo Meloni è già successo quattro volte che le Camere non ne avessero in tempo.

Se fosse necessario trovare un motivo scatenante alla inderogabile necessità, per questo centrodestra, di apparecchiare una riforma istituzionale sul sistema di governo, non si è lontani dal ritenere che cancellare i risultati storici ottenuti dai governi tecnici precedenti sia una necessità imprescindibile. Visto che da quei confronti l’attuale forza di governo uscirebbe quasi sempre perdente.

Ultimo Aggiornamento: 05/11/2023 09:10