La vicenda di Giulia mi ha fatto riflettere da giorni, da un lato in maniera emotiva, un moto misto tra sensi di colpa, l’appartenenza alla quasi detestata in questi giorni specie maschile, patriarcale o meno, e soluzioni immediate per arginare la marea di femminicidi. Cosa si può fare? Quali soluzioni, non improvvisate abbiamo?
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Il maschio progressista: creatura mitologica o realtà concreta?
Poi esce un editoriale di Francesco Piccolo, in cui sottolinea una verità profonda, ancestrale, a cui penso e su cui scrivo da tempo. Il maschio progressista non esiste, è quasi un ossimoro. È un paludamento, un involucro di uomini che non ci stanno a passare per quelli che forse sono. Un tentativo di schivare i colpi di una tendenza epocale nella millenaria storia umana. Quella dell’emancipazione femminile.
Soprattutto negli ultimi trent’anni le donne, grazie anche al progresso digitale ed alla globalizzazione, sono cresciute in ruoli e autonomie. Non solo su dimensioni di base ma anche in ruoli avanzati. La maggior parte di coloro che vincono il concorso in magistratura sono donne, così come sono maggioranza nell’accesso ad altre professioni, dai notai ai medici. Le leggi sulle cosiddette quote rosa hanno moltiplicato le donne in politica, dai consigli di quartiere sino al Parlamento. Anche in zone simbolicamente, ma forse erroneamente, patriarcali restìe al cambiamento, come la Sicilia, i consiglieri comunali donne, grazie alla doppia preferenza di genere sono quintuplicati. Si è arrivati al minimo, per norma, di donne in giunta regionale, ben quattro che creano molte grane ai partiti che non possono premiare i loro portatori di voto maschi.
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Il maschio che arretra, ma prima distrugge
Tutto questo fa montare una mala sopportazione crescente delle regole da parte dei maschi, che vedendo diminuire il loro spazio, millenariamente concesso, diventano insicuri e fragili. Le donne posso giustamente replicare che il problema non è loro, il loro problema è la violenza nei loro confronti. Ma sono due problemi che si tengono insieme. Il maschio fragile reagisce, non c’è niente di più imprevedibile e pericoloso di una persona fragile. E questa pericolosità è simboleggiata dal dramma di Vigonovo. Lui non voleva rimanere indietro, laurearsi dopo di lei nello stesso campo. La donna più forte, più in gamba, più attrezzata dell’uomo. Il suo diventare secondo, la perdita di ruolo, la capacità di fuga verso destini non sincroni. Non c’è solo possesso o follia nell’agire di Filippo. È un archetipo sociale in cui il maschio arretra davanti all’accelerazione, in due generazioni, dell’emancipazione femminile. E questo arretramento gli toglie il terreno sotto i piedi e lo mostra in tutta la sua insicurezza. Non è più il maschio garantito a tavolino, che doveva competere solo con altri maschi, lenti e prevedibili come lui. Ora c’è un genere più forte, intellettualmente problem solving, in una globalizzazione che aumenta i problemi da risolvere, un genere abituato al multitasking da secoli: la donna. E la femmina, operosa per ritmo del mondo, come le api in un mondo alveare comanda, il maschio se va bene fa il fuco. E questo fa paura ai maschi, e la paura rende aggressivi, pericolosi. Il fenomeno è solo agli inizi e ci vorrà molto tempo, generazioni, e molte risorse economiche e sociali da impiegare, non certamente un paio d’ore alla settimana con gli psicologi. Soprattutto potrebbero nascere correnti di pensiero pericolose, mutuate dal mondo islamico, in cui la donna sta al suo posto, dietro e non davanti l’uomo. Pena la morte per lapidazione. Siamo solo all’inizio di un fenomeno epocale per il mondo occidentale, e non bisogna fidarsi dei semplificatori o dei finti progressismi.